Interviews


Radio


Radio RAI 2 “Appassionata” Marco Spada con Girolamo Arrigo e Giampaolo Testoni 16 novembre 1992.



Radio RAI 3 “Opera Festival” con Ubaldo Mirabelli e Giampaolo Testoni Stagione 1993, 24 novembre 1992



Radio RAI 3 “Dopo la Prima” Daniele Martino con Franco Pulcini dopo la prima di Alice, 30 aprile 1993



Radio 2 della Svizzera Italiana Daniele Martino con Giampaolo Testoni per Alice, 17 luglio 1995.



Radio RAI 3 “Palco Reale” con Franco Pulcini e Gaia Varon per Alice, 1 marzo 1996 e 15 aprile 1996



Radio Popolare “Rotoclassica” Claudio Ricordi con Giampaolo Testoni su Alice, 23 aprile 1998.



Radio RAI 3 “Suite” Carlo Boccadoro con Giampaolo Testoni per Alice, 10 dicembre 2003.



Radio 2 della Svizzera Italiana Giorgio Vitali per Carnaval, 10 dicembre 2007.



Radio Classica Intervista a Giampaolo Testoni Tre Pezzi Sacri 27 luglio 2018



IRadio Classica Intervista a Giampaolo Testoni Fantasio e Fortunio 19 dicembre 2018





Press and Books


INTERVISTA per  ARS NOVA a cura di Sara Zurletti, Castelvecchi Editore (2016)

     La musica di derivazione tonale dei grandi autori del primo novecento fuori dalla scuola di Vienna era per me il modello da cui cominciare, un modello testato e ampiamente collaudato da capolavori entrati nel repertorio. Questo mi rassicurava e rafforzava nel convincimento che la strada era non solo ancora percorribile ma erano praticabili nuove interpretazioni e variazioni, la musica di Castiglioni andava in questa direzione, per esempio.

    Non c’erano proibizioni ma solo finestre da aprire, non dogmi astratti ma spazi creativi in cui la trasformazione del materiale era anche ludica. I miei studi accademici, strutturati su testi molto rigidi e pedanti ma necessari a una formazione disciplinata, si focalizzarono poi sullo studio del madrigale cinquecentesco che mi attirava enormemente per il rapporto tra linee contrappuntistiche e interpretazioni espressive del testo poetico. Questo studio ha segnato profondamente la mia prima fase creativa; la mia armonia, i miei colori strumentali derivavano dalla rielaborazione orizzontale di accordi sentiti come linee melodiche; Stravinsky prima e poi Strauss mi indicavano in questo senso come rileggere l’armonia tonale tradizionale. Di fatto non ho mai ragionato razionalmente in modo tonale né mi sono preoccupato di elaborare dei criteri a priori con cui preparare una composizione; stare al pianoforte e anzitutto improvvisare, lasciare che i miei accordi e melodie arrivassero dall’orecchio sulla punta delle dita: questo era ed è il mio sistema. La forma variazione in seguito ho scoperto essere la mia forma ideale, naturale, la più adatta a convogliare ordinatamente il mio pensiero rapsodico. Lo studio dell’orchestrazione mi ha da subito appassionato e la mia ammirazione per i compositori virtuosi del timbro, i russi anzitutto, mi ha guidato del tutto spontaneamente verso il mio suono personale e il mio stile. Per scrivere musica la tecnica è indispensabile ma la naturale sorgiva sensibilità per il timbro può fare la differenza.

    Quello che mi convinceva e attirava era la musica scintillante e ricca di vitalità e colori tipica delle avanguardie parigine, russe e dei meravigliosi corni magici mahleriani, i grovigli contrappuntistici delle partiture teatrali straussiane, insomma quella musica moderna che comunicava direttamente al mio orecchio senza intermediazioni teoriche e senza limitazioni e filtri all’idea di una nuova possibile complessa e ricchissima bellezza sonora, bellezza immediatamente percepibile, sensuale, che come giovane autore potevo assimilare senza sforzo e tentare di emulare.

    Questa percezione di “comunicazione” di bellezza e possibilmente di verità, era necessità imprescindibile, era il mondo in cui volevo stare, in cui avrei sempre voluto stare. Questa musica volevo scrivere, riproducendola in libertà, cantandola, come fosse stata scritta tutta da me, da sempre. Non ci sono riferimenti o citazioni nella mia musica che siano direttamente collegabili a modelli amati e studiati  di epoche diverse, io scrivo solo per sentirmi nel flusso della vita attraverso la musica che sono in grado di produrre naturalmente. Al contempo ci sono, ineludibili, segnali di un’appartenenza culturale e sentimentale a quelle stesse musiche che ho tanto studiato, amato e emulato e questo è un processo ovvio e impossibile da evitare per qualsiasi artista, anche il più sperimentale, se in buona fede. Ci sono periodi differenti, stili differenti, nella mia scrittura. Oggi dico cose in parte diverse da quelle che dicevo nel 1980 o nel 1993, questo è ragionevolmente vero per ogni artista, ma è anche vero che come diceva Stravinsky un compositore continua a lavorare sullo stesso pezzo per tutta la vita, quel pezzo è il suo stesso stile che di volta in volta si abbiglia con fogge solo apparentemente diverse. La memoria della nostra comune tradizione è cosa viva, i miei modelli sono vivi con me, mi sono contemporanei, mi parlano e io capisco cosa mi dicono. Così cerco di imitare il loro atteggiamento, trasferire le loro emozioni primarie attraverso forme anche complesse, forme nuove e seducenti, forme che riescano anche a sorprendermi mentre ci lavoro ma che mi riportano tutte verso una casa comune, che conosco bene, che ho amato, digerito, e poi restituito al meglio delle mie possibilità.

    Il Novecento musicale, naturalmente comprendendo i grandi autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, era per me giovane esordiente compositore alla fine degli anni settanta, il concentrato di tutto ciò che amavo della musica “classica”, appreso anche attraverso la lettura delle biografie dei più amati. Quel tipo di compositore, dentro il grande flusso di una storia secolare ricca di evoluzione ma costruita sulla memoria del passato, rappresentava ciò che volevo e sentivo di essere, mi sentivo erede legittimo di quel modo di essere. Naturalmente dopo un approccio di onnivora curiosità, con l’inizio degli studi in Conservatorio, il confronto con i modelli alternativi, figli degeneri della seconda Scuola di Vienna, consolidò il mio istinto naturale verso la grande tradizione tonale fino alle estreme possibilità ma dentro un chiaro recinto espressivo e narrativo, Stravinsky e Strauss anzitutto. Non capivo che gusto poteva esserci ad annoiarsi ascoltando musica invece che ricavarne gioia. Avevo cominciato a sei anni a studiare privatamente con lezioni di pianoforte con la professoressa Tissoni ma lo studio sistematico del pianoforte mi spazientiva e preferivo improvvisare e cercare di creare qualcosa invece di leggere cose già scritte.

    Entrai diciassettenne in Conservatorio a Milano prima studiando la Musica elettronica, di grande moda e novità allora, con Angelo Paccagnini e poco dopo nella classe di Niccolò Castiglioni per lo studio della Composizione. Fu una scelta consapevole perchè ascoltando la sua musica capivo che era un autore libero da ideologie restrittive e con lui i miei modelli trovavano legittimazione. La sua preparazione sulla musica del Rinascimento mi aprì poi la strada verso le meraviglie del Madrigale e questa impronta ha segnato indelebilmente il mio percorso musicale in seguito. La classe di composizione di Niccolò era un’isola felice, forse l’unica, dove giovani naufraghi coltivavano passioni diverse, interessi e curiosità musicali che altrimenti non avrebbero trovato possibilità di risposte e ascolto. La sua musica, anomala e indipendente rispetto all’ortodossia delle avanguardie seriali e post Darmstadt, includeva elementi della musica tonale e un metodo di scrittura lontano anni luce da quello di molti altri suoi illustri colleghi, un metodo affidato al rapporto diretto con il suono, con l’orecchio, fuori da ogni calligrafismo e compiacimento di musica “scritta”.

    Questa alterità faceva sentire noi allievi una specie di setta, in parte vista con sospetto, ma rispettata per l’autorevolezza dell’insegnante, anch’esso comunque anomalo in un sistema che solo a parole invocava la molteplicità. Mai un cenno da parte sua di disapprovazione per scelte lontane dal suo stile, nessuna costrizione sulla metodologia per comporre, nessuna traccia di “plagio” calligrafico come invece era frequentissimo intravvedere nelle partiture di nostri colleghi studenti in altre classi. Ci fu anche l’incontro fortunato in Conservatorio con alcuni coetanei che avevano la stessa diffidenza verso le noiose e rumorose neoavanguardie e amavano invece le meraviglie sensuali e ricche di sonorità gloriose dei compositori fuori dalla cerchia della scuola di Schoenberg. Scattò la scintilla creativa di diversificare la nostra musica, di fatto contrapposta a quella praticata dai nostri stessi maestri e da gran parte dei loro allievi. Questo gruppo fu poi chiamato “neoromantico”, in parallelismo al gruppo straordinario di autori americani di poco più anziani di noi e già operanti nella direzione che volevamo intraprendere. L’atmosfera che allora ammorbava la musica contemporanea era pesante, fatta di dogmatismi, divieti e regole che trovavo assurde, antimusicali, una neoaccademia che idolatrava il feticcio della pagina scritta e non il racconto sonoro, il sistema addirittura grafico invece del risultato acustico. Mi dava tremendamente fastidio sentire musica così brutta perché scritta male ma poi stranamente politicamente sostenuta e imposta nelle istituzioni musicali da uno stuolo di talebani invasati, da salotti importanti, intellettuali a libro paga del Partito egemone della sinistra.

    Con costoro, per decenni da allora fu quasi impossibile definire legittimamente moderni e attuali autori come Stravinsky, Strauss, Prokofiev, Sostakovich, Ravel, Debussy,fino a Britten, Korngold, Schreker e persino Messiaen; proibito studiare e citare le opere di Puccini, figurarsi poi anche solo avvicinarsi ad autori della generazione successiva come Respighi,  inutile studiare e ascoltare Tchaikovsky, Mahler, Janáček, necessario stare lontani da Bernstein, Barber e Menotti! Io però consideravo Puccini moderno non meno di Ravel o Stravinsky, lo percepivo come un grande protagonista alla pari con i compositori russi, francesi e tedeschi; lo stesso sentimento di empatìa provai per Respighi che mi affascinò per la bellezza debordante del suo magistero orchestrale derivato dalla musica coloratissima dei russi; gli altri compositori della generazione dell’ottanta li conoscevo meno perché su di loro era calata da tempo una sorta di velo, un oblio accompagnato da pesanti censure ideologiche (le scoprii più tardi) che rendevano rare le esecuzioni in concerto. Il verismo musicale mi sembrava invece molto distante dal mio modo di sentire (ero troppo giovane...), museale, di un gusto stantio e volgare soprattutto nella drammaturgia; Verdi mi appariva modernissimo al confronto, anche per le sue mature scelte dei testi della grande letteratura e le meraviglie strumentali e armoniche di Don Carlo, Otello e Falstaff, per non parlare del suo incredibile quartetto per archi o la potenza espressiva del Requiem; mi sembravano questi dei punti di partenza più che di arrivo, dei modelli di perfezione assoluta da studiare e emulare, porte che aprivano altre porte sul futuro. Tutte cose che penso ancora oggi naturalmente, e aggiungo la gioia che ho provato all’inizio degli anni 2000 nel poter fare una revisione critica dell’ultima opera di Ponchielli, Marion Delorme, vero anello di congiunzione con le due ultime opere verdiane.

    Mio malgrado la strada maestra era quella dettata da Schoenberg e Webern, in un darwinismo mal compreso, e ottusamente praticato, l’idea di una rivoluzione permanente dove già l’oggi è vecchio e superato, seguendo i diktat di Darmstadt e dei suoi alfieri. Una distorsione così profonda dei concetti di bellezza, espressività, narratività unita all’abolizione della singolarità artistica immersa nel grande fiume della memoria secolare, non poteva che generare, dopo una prima liberatoria e sana curiosità, noia e poi sfiducia. I cambiamenti sociali, economici e di costume hanno favorito la nascita di un’arte musicale di consumo che ha riempito il vuoto di senso lasciato dalla musica d’ arte e dalla cultura ufficiale, lontana anni luce da ogni idea di progresso emotivo interiore ma solo concentrata sullo spasmodico progresso del linguaggio in astratto. I paladini del nuovo per il nuovo hanno creato il vuoto attorno alla musica classica moderna tradendo poco per volta ogni ragionevole tentativo di assimilazione e comprensione da parte di un pubblico potenzialmente ancora vasto e eterogeneo.

    Si è creato un pubblico di nicchia, specializzato, iperstrutturato e connivente ma nell’assenza di un vero palpabile consenso, di universalità e condivisione dei contenuti. Questo non era mai avvenuto prima d’ora, una frattura così profonda e dolorosa che ancora appare difficile da ricomporre. Parlarne oggi, per i più giovani studenti di Composizione, può sembrare ridicolo e inaccettabile, fantascienza, ma invece a Milano, centro e guida musicale allora per l’intera nazione, questa era la situazione: se nelle strade si viveva l’angoscia e il dolore dei famigerati anni di piombo, nei Conservatori il pericolo di essere messi al bando e “fatti fuori” era palpabile, reale. Ricordo epiteti verso me e la mia musica come reazionario, fascista, e tutto ciò non fu affatto piacevole né facile  da sostenere. Una delle cose straordinarie del periodo però,  fu la convergenza poco più che casuale di arti diverse verso un nuovo centro, un pensiero che superasse il conflitto “sociale” delle avanguardie postbelliche isolate nel loro ghetto di intellettuali senza seguito popolare. Ero molto interessato a tutto quello che si muoveva in questa nuova inattesa direzione e amando la pittura e la poesia ero in prima linea su questo doppio fonte. Miei amici pittori e poeti, alcuni dei quali protagonisti di queste correnti di “liberazione”, erano al centro dei miei interessi almeno quanto i miei colleghi compositori. Il libro di Jean Clair “Critica della modernità”, uscito nel 1983, fu di fondamentale importanza per me. Non mi pare di averne mai condiviso l'influenza con i miei compagni di allora perché non ricordo ci fosse in loro un interesse per la pittura contemporanea. Le idee di Clair mi diedero coraggio e stimoli, tutto quello che nel nostro mondo musicale stentava a emergere, un mondo veramente “lento” e conformista, nelle arti figurative si stava improvvisamente muovendo con grande velocità.

    La Transavanguardia era l'equivalente in quel momento del nostro neoromanticismo ma loro avevano l'appoggio di Bonito Oliva e soprattutto agivano con il supporto quasi immediato del collezionismo, dei galleristi e delle istituzioni museali pronte a cogliere l'attimo propizio e sfruttarlo. In quel movimento vedevo la vera reazione all'arte concettuale attraverso il ritorno alla pittura, al disegno, al colore, alla tecnica, alla forma. Avevo bisogno di trovare conferme alle mie intuizioni e aspirazioni, lì riuscivo a vederne dei frutti molto importanti. Ho amato molto il primo periodo dei pittori della Transavanguardia, Chia e Cucchi soprattutto, mentre per la poesia il mio contatto diretto e l’amicizia con Bramati, Pontiggia e poi con Giuseppe Conte mi ha aiutato a trovare altro materiale fertile per me. Il gruppo di poeti raccolti attorno alla rivista Niebo e poi alla pubblicazione La Parola Innamorata si configurava come la più interessante reazione allo strutturalismo razionalista del Gruppo 63. Mi sembrava che queste convergenze fossero un segnale chiaro che ci fosse un sentimento comune, un sotterraneo flusso di idee convergenti e condivisibili. Mi sentivo al centro di una rivoluzione spirituale che desideravo con tutte le mie forze si avverasse, una rivoluzione verso la bellezza. In parte è stato così.

    La quasi involontaria nascita del piccolo gruppo di autori poi chiamati neoromantici nel 1980 creava una base abbastanza solida al nostro lavoro, solida perché solidale nel vagheggiare una musica simile a quella che amavamo anzitutto, in secondo luogo perché formata da elementi molto diversi sul piano umano e artistico, una diversità tangibile ma in espansione rapidissima, fortemente coesa da gusti e affinità ma ricchissima di sfaccettature e varianti; in qualche modo mi sembrava si riproducesse quella meravigliosa stagione dell’inizio secolo dove fermento giovanile e desiderio di essere protagonisti insieme di un’unica grande storia sembravano a portata di mano. Alcuni ci credevano forse più di altri ma queste erano sottigliezze.

    Nei nostri incontri spesso molto divertenti e altre volte vicini allo psicodramma, ci si confrontava su tutto, la musica naturalmente prima di tutto, per alcuni la “strategia” era magari più importante ma i ruoli si definivano di volta in volta come in una commedia work in progress dove gli attori cambiano ruolo a seconda delle circostanze. Nelle nostre discussioni, che erano anzitutto tra amici, gli argomenti erano quasi sempre vicini alle cose dell’arte, non ricordo che la politica, se non appunto mediata da argomentazioni di strategie d’azione, facesse parte del nostro pensiero comune. Tra alcuni di noi c’era sicuramente una vera amicizia e anche un reale legame di affetto e stima e questo ci trasportava in un territorio emozionante, si rifletteva poi nel lavoro personale in qualche modo, era evidente e le reciproche influenze si rivelavano nel giro di poche settimane, ad ogni nuovo brano composto. Per un breve periodo mi sono sentito un compositore fatto da tanti compositori, in un divenire costante, millimetrico e vorticoso.

    Poi comunque una ferita si aprì anche a causa nostra e il lento declino delle ideologie delle Avanguardie non solo musicali, cominciò inesorabile ma lasciando macerie e distruzione, uno sfascio del rapporto di fiducia con il pubblico, con gli interpreti e con quelle stesse istituzioni che trovarono finalmente la buona scusa per diradare la programmazione di musica nuova, facendo di tutta l’erba un fascio. Questa situazione, oggi arrivata a un culmine negativo, ha in parte intaccato anche quegli stessi grandi autori del Novecento che sono estranei alla rivoluzione fallita del dopoguerra, in parte anche loro vengono mal sopportati persino dal nuovo pubblico che timidamente continua a tentare l’avvicinamento con la cosiddetta musica classica. Nella mia musica, da quasi quarant’anni, il rapporto diretto con le opere che ho studiato e amato e con le poetiche dei miei autori prediletti, continua né mai ha avuto un momento di distacco, io credo nella condivisione di quei valori musicali, nella loro forza espressiva e nel loro messaggio di una Bellezza profondamente umana e umanistica, etica. Le tracce di questo amore e di questo sentirmi parte di un’unica grande memoria fatta di tanti gradini e piccoli tasselli aggiunti nel segno di una volontaria continuità, si trovano evidenti all’ascolto della mia musica ma credo anche trasfigurati attraverso il mio personale sentimento del suono, il mio contributo narrativo alla meravigliosa narrazione del secolo ventesimo. Mi piace pensarmi membro legittimo di una illustre  straordinaria e rivoluzionaria famiglia di artisti consapevoli portatori sani di una storia ininterrotta di evoluzione del linguaggio musicale dentro un sentiero inequivoco.

    Il fenomeno, per lo più mediatico del postmodernismo, nato per riempire un vuoto spaventoso di contenuti condivisibili creato dalle neoavanguardie, altro non era che un ennesimo tentativo di compensare lo smarrimento e il disagio di almeno due generazioni di artisti, di fronte a una società più sorda e meno attratta dalla “lentezza” dell’Arte occidentale. Molti autori, pittori, scrittori che si sono identificati in questo neo qualcosa, hanno trovato nella facilità di essere puri assemblatori, il rimedio forse anche del loro sopraggiunto mutismo, la chiave per aprire di nuovo stanze di comunicazione dove una oggettività senza stile si sostituiva alla ricerca della narrazione; metto tante cose una dietro l’altra, una pernacchia e una frase d’amore, uno sputo e un bacio, un insulto e una melodia ma non le lego perché questo comporterebbe fare una scelta e la scelta non la posso fare, non ne sono capace, non la desidero, non mi serve. Un’Arte senza scelta, senza memoria, solo un grande magazzino dove la casualità inconsapevole guida il capriccio istantaneo e arbitrario del mio acquisto. Una manna, anche se momentanea, per quel mercato delle cose artistiche in evidente stato comatoso. Mi sono sempre opposto a questo postmodernismo proprio per il suo essere pastiche, nell’azzerare significati e diversità in una ricostruzione da tavolo obitoriale, un puzzle nutrito da una ambiguità innalzata a valore assoluto; questo ipereclettismo stilistico mi spaventava prima ancora che infastidiva, concedeva la patente di artisticità praticamente a chiunque, il famoso quarto d’ora di celebrità per tutti come predicato da Warhol. Sotto la firma di questa ambigua illusione ho sempre trovato per lo più cose poco interessanti, mediocri tentativi di riciclo seriale di forme in sé bellissime e ridotte a icone senza vita. Un vero preludio alla globalizzazione che oggi rende gli artisti che non vi hanno aderito, vittime di una democraticità iniqua e ignorante.

    Le mie idee sull’arte e la musica erano e sono in aperto dissenso con questa operazione frigida, intellettualistica, tanto quanto la cerebralità asessuata ed angosciosa degli strutturalismi avant-garde. La contaminazione per esempio con la musica pop, tanto di moda nei primi anni ottanta, non mi attraeva affatto, mi sembrava anzi ridicola nei risultati, perdente rispetto agli originali molto più interessanti. I tentativi oggi sono disastrosi, hanno portato all’apice la mistificazione dei contenuti attraverso la bruttezza dei contenitori; basta guardare ai fenomeni dei finti tenori o dei finti pianisti oggi di grande successo, surrogati di un’idea mal compresa di un originale che non si sa più come rivendere al pubblico (quale pubblico?). Il mio lavoro doveva in realtà cercare da subito una omogeneità stilistica attraverso la continuità con il passato abiurato dalla cultura ufficiale ma anche essere protetto dalla banalizzazione di una postmodernità sospesa nella degerarchizzazione dei valori dove tutto è uguale a tutto. I media oggi sono veicolo potentissimo di questo appiattimento che semina disinformazione, terrorismo culturale, diffidenza.

    Un quartetto d’archi di trenta minuti di Beethoven non è uguale a una canzone di Paul McCartney, in entrambi c’è sapienza, valore, forza espressiva ma restano e devono restare due oggetti diversi, hanno tempi di digestione diversi e “servono” a scopi in parte anche diversi. Abbiamo bisogno di entrambi ma dobbiamo essere consapevoli del perché sono diversi e per farlo dobbiamo essere informati sul come sono fatti. L’ultimo lustro ha portato a galla una nuova malformazione di questa idea perennemente transitoria e instabile della musica contemporanea postmodernista, una formula che tenta di coniugare il non coniugabile facendo propria l’idea che lo stile è nel non averne alcuno, ogni volta mi reinterpreto e posso negare ciò che ho detto in precedenza (da non confondere appunto, postmodernamente, con l’eclettismo stravinskyano). Una mostruosa avanguardia moderata, ossimoro degli ossimori, che non disturba più nessuno, si ciba della vacuità e del disinteresse e produce un rutto fatto dai miasmi deboli della non scelta tra i materiali utilizzati; talento, ragione e istinto frullati in un risultato casuale in una nuova forma ancora una volta elitaria e velleitaria dove tonalità e atonalità, dissonanza e consonanza, si sovrappongono senza creare senso e significato, senza gerarchia (parola che ha sempre disturbato sia i bacchettoni che i rivoluzionari a oltranza). Una formula asensuale, come va di moda in questo periodo, che predilige la non coerenza all’interno di un’ indifferenziata pratica di stilemi e cataloghi di effetti più o meno gradevoli. Forse questo è il vero punto di non ritorno del postmodernismo musicale. Può essere interessante? Forse sì o forse ugualmente no, tanto non importa comunque a nessuno, agli autori per primi.

    La mia scelta, a partire dai primi anni ottanta, e punto fermo almeno per me nel fondare il movimento neoromantico nel 1980, era dunque in totale rotta di collisione con entrambe le barricate, gli strutturalisti neoseriali e i postmodernisti, né con Boulez né con Cage (se vogliamo attribuire la paternità postmodernista a questo pur simpatico e geniale autore americano). I miei autori di riferimento li trovavo vivi e vegeti, scintillanti nel loro canto all’interno di quella memoria stratificata e gloriosa; questi autori ancora parlavano al pubblico, qualunque fosse e praticamente ovunque ce ne fosse l’opportunità ma  sembravano già museificati, seppelliti ancora vivi; è accaduto ai grandi russi, Stravinsky, Prokofiev e Sostakovich o Strauss per esempio, similmente ai vari Picasso o Matisse, vivi in buona parte del secolo ventesimo ma snobbati come fossero morti un secolo prima dalle neoavanguardie e dal postmodernismo. Conflitto generazionale? Questa era la formuletta idiota che veniva usata per denigrare il recupero dei nonni a discapito dei padri che io e altri eravamo quasi costretti a proclamare, con padri degeneri meglio ascoltare la voce dei nonni, certamente! Insomma credo di far parte di quella terza via, quella che predilige la costruzione di forme contro l’informe, la narrazione contro la musica fatta di pure figure, una musica di affetti e non di effetti, cerco la sensualità del suono e la joie de vivre attraverso il suono che palpita e scintilla, desidero il CANTO, cosa che ripeto come un mantra ai miei allievi e a chi mi chiede consiglio su come e cosa scrivere, il canto delle cicale, delle rondini, della risacca, il Canto come cuore della grande Poesia e della Natura, essenza del Mito, materia imprescindibile e eterna, ragione di condivisione attraverso il sentimento del Suono, veicolo e strumento dell’Eros.

Ecco, la mia musica vorrebbe parlare di tutto questo.

    Tra le mie composizioni più significative posso citare anzitutto Le nuvole con cui esordii alla Biennale di Venezia del 1981, un brano da camera che in omaggio al mio maestro Castiglioni, assorbiva insieme ai suoi insegnamenti anche le influenze che accomunavano lui e me, cioè Stravinsky e Messiaen. La Prima Sinfonia del 1983/84 , tra le mie prime importanti commissioni, attorno alla quale sicuramente ci fu una bella concentrazione solidale tra noi amici neoromantici, in questo caso il mio raggio di influenze si ampliava accogliendo i primi segni del mondo mahleriano e straussiano; Alice, mia prima opera in tre atti andata in scena a Palermo nel 1993, sicuramente un punto di arrivo di tutto il mio lavoro in quasi  quindici anni di produzione, concentrato di tutta la mia energia poetica e artistica e manifesto perfetto di tutto ciò che avevo pensato musicalmente e per cui mi ero battuto senza risparmio. In qualche modo potrei affermare che Alice, la mia Alice, c’est moi! Il teatro musicale ha avuto una grande influenza sulla mia passione per la musica in generale cominciando dal balletto però.

    Mia madre, che aveva studiato e danzato alla Scala, mi parlava fin da piccolo della danza e della bellissima musica per la danza, Tchaikovsky ma anche quei minori autori “artigiani” che mi attraevano con le loro seducenti facili melodie. Il palcoscenico, le punte, il tutù, poi Diaghilev e la mitologia dei Ballets Russes, Stravinsky! Stranamente solo negli ultimi dieci anni ho finalmente cominciato a scrivere molta musica per la danza. A mia madre devo anche la passione per l’opera, la sentivo spesso canticchiare arie di Puccini che sapeva a memoria e comunque in casa mia la musica, anche per il lavoro di mio padre, risuonava continuamente, tutta la musica, le canzonette e il jazz, l’opera e la musica sinfonica...mio padre aveva una collezione di migliaia di dischi. Verdi e Puccini, studiati e amati nella classe di Flavio Testi, ascoltati nelle grandi interpretazioni scaligere di quegli anni e poi le scoperte novecentesche fino a Janáček e Britten, passando per Strauss, più tardi il lento inesorabile avvicinamento a Wagner, tutta questa tradizione attraverso la parola scenica, il canto, mi sembravano la vetta massima che ogni compositore poteva ambire di raggiungere. Alcuni miei colleghi già si cimentavano con l’opera, genere che più di tutti l’avanguardia seriale disprezzava e ignorava come vecchiume; era logico che il nostro movimento di opposizione tenesse il teatro musicale come primo oggetto del desiderio, veicolo ideale per rispondere coerentemente al dogma della rivoluzione permanente, perché giustamente autori italiani, diretti discendenti di un passato così unico.

    Con la mia “Alice”, contribuii con uno sforzo immane (tre atti, orchestra enorme, 12 cantanti e una durata di quasi tre ore) al progetto Opera che ci legava quasi tutti. Sicuramente questo genere, legato al canto e alla scrittura melodica, è stato un perno fondamentale del movimento neoromantico e lo è tuttora. Alice è il risultato di un tentativo, a mio parere quasi del tutto riuscito, di coniugare la necessità della cantabilità del testo nel senso più tradizionalmente melodico, italiano, con un accompagnamento o commento sinfonico molto colorato e complesso, denso di contrappunto e animato da sempre mutevoli impulsi ritmici. La chimera di coniugare la musica vocale e quella strumentale in un unico corpo pulsante, avvincente, emotivamente sempre vivo e narrante, che con Wagner trova la sua prima incarnazione, mi affascinava e stimolava già ancora studente di conservatorio. Impresa difficilissima e rischiosissima, soprattutto per un compositore italiano. Il modello di Korngold, almeno nella meravigliosa “Die Tote Stadt”, mi ha dato un incoraggiamento in più, dopo lo studio approfondito delle opere di Richard Strauss.

    Il soggetto di Alice era perfetto per me allora in quanto radicalmente antiverista e al contrario ricco di stratificazioni di senso e interpretazioni possibili attraverso le figure irreali dei suoi personaggi. Una strada aperta a ogni possibilità di ricostruzione del senso teatrale passando dal mezzo potente della fiaba che ricopre e trasfigura con la sua leggerezza le sfumature e gli abissi psicologici dei suoi eroi: con il librettista Bramati scegliemmo una visione addirittura tragica, trasformando la giovane fanciulla e i suoi sogni nello sguardo dell’Artista che immerso nella durezza della realtà e dei suoi rapporti di forza, comprende quanto sia grande la distanza tra la visone creativa della vita e la verità della stessa, quanto le persone sono spesso vittime e carnefici in un gioco di ruoli che abbassa il tono della poesia in un limbo, o meglio inferno, di mediocrità e inespressività. Alice scopre la crudeltà dei comportamenti umani, non ne comprende il motivo, esprime il suo disagio ma vuole difendere il diritto a esistere o coesistere con questa realtà, vuole affermare la possibilità che l’Arte sia mezzo per fare la vera rivoluzione possibile per gli esseri umani attraverso la Bellezza, l’etica della Bellezza, la redenzione forse anche dal male di esistere attraverso l’immaginazione. Alice fa questo attraverso il Canto, attraverso la sua fede nel Canto, Alice è per me il simbolo della Musica, del Suono, lo fa affermando il diritto all’Ingenuità dell’infanzia, crocevia dello spirito e del corpo, professa la necessità di un’Arte profondamente umana, in equilibrio tra istinto e ragione, tra logica e follia, nella libertà da ogni finzione e costrizione.

Molti anni orsono, poco prima di cominciare a scrivere Alice, mi interessai molto alle opere di G. Buchner, in particolare a Leonce e Lena.

    La fiaba mescolata alla feroce critica verso le certezze sociali, la malinconica introspezione e il gusto per il paradosso, il gioco dello scambio di ruoli, l’asciuttezza del linguaggio, la teatralità trasfigurata dall’estasi della parola poetica, tutto questo mi attirava e mi influenzava nella scelta della commedia di Buchner per adattarla a libretto per musica. Queste sono alcune motivazioni che mi spingono a mettere in scena e far cantare personaggi, che sono profondamente reali proprio perché “maschere”, archetipi. La lezione di Shakespeare rimane un faro di perenne ispirazione.

    Abbandonai in quegli anni l’idea perché non adatta ad un’opera di grandi proporzioni ma l’ho ritrovata e rivisitata dopo tanto tempo perché ho pensato a una nuova scrittura di teatro musicale da camera, con un organico strumentale ridotto e un ridotto numero di voci, più adatta ed efficace, oggi, alle esigenze di messa in scena dei nostri teatri.

    Per la prima volta ho affrontato la scrittura del libretto, adattando il testo originale (nella sua traduzione italiana) ai miei “ritmi” e al mio fraseggio melodico, non trovando difficoltà particolari ma con grande slancio e facilità; ho utilizzato una versificazione piuttosto libera ma sempre ascoltando il mio istinto prosodico tutto finalizzato all’ efficacia e comprensibilità del suono e del significato della parola. Un altro progetto cui sto cominciando a pensare è un dittico da Alfred De Musset, basato sulle due commedie brevi Fantasio e Le chandelier, quest’ultima ribattezzata Fortunio, nome del protagonista. Uno sguardo limpido e appassionato al tema dell’amore e delle sue illusioni, al gioco e al fraintendimento delle sue apparenze e dei suoi inganni, non prendendo mai però una posizione moralistica o filosofica sulle sue conseguenze e sui comportamenti delle sue “vittime”. In questo atteggiamento la leggerezza e la sottile ma profonda espressività dei dialoghi rimanda allo Shakespeare delle commedie e ai testi lirici dei primi romantici tedeschi I personaggi, come in Leonce e Lena sono quasi degli archetipi, ci sono Re e Principi, promesse spose e buffoni di corte, attendenti e giovinastri senza scopo nella vita, amanti annoiati e mariti ignari di ogni inganno, si mescolano leggerezza e poesia, riso e sconforto, illusioni, giovinezza, tutto insomma quello che può contenere la passione e l’animo umano anche moderno in una sola certezza, quella che il giocare sul palcoscenico ha molto a che fare con quello che accade nella realtà prosaica delle nostre vite quotidiane e a volte lo supera nelle sue variabili promettendoci soluzioni diverse dalle consuete mediante il soffio leggero del sussurro e del canto, del travestirsi in qualcun altro che comunque ci somiglia moltissimo.


31 RISPOSTE A UN QUESTIONARIO (mai pubblicato) (2013)


    1.    Il Novecento musicale, naturalmente comprendendo i grandi autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, era per me giovane esordiente compositore, il concentrato di tutto ciò che amavo della musica “classica”, attraverso le biografie oltreché le opere degli autori. Il compositore rappresentava ciò che volevo e sentivo di essere. Naturalmente dopo un approccio di vorace curiosità adolescenziale per tutto ciò che era accaduto e accadeva nell’ambito della musica novecentesca, con l’inizio degli studi in Conservatorio, il confronto dei modelli possibili mi orientò naturalmente verso quegli autori che tenevano salde le radici nella grande tradizione tonale ma elaboravano virtuosisticamente una personale reinvenzione di quel linguaggio fino alle estreme conseguenze ma dentro un chiaro recinto espressivo e narrativo.

    2.    I compositori italiani che mi attiravano erano naturalmente i più vicini alle poetiche di rinnovamento della nostra tradizione musicale a cominciare da Puccini che consideravo moderno non meno di Ravel o Stravinsky, lo percepivo come un grande protagonista alla pari con i compositori russi, francesi e tedeschi; lo stesso sentimento di empatia provai per Respighi che mi affascinò per la bellezza debordante del suo magistero orchestrale derivato dalla musica coloratissima dei russi; gli altri compositori della generazione dell’ottanta li conoscevo meno perché su di loro era calata da tempo una sorta di velo, un oblio accompagnato da pesanti censure ideologiche (le scoprii più tardi) che rendevano rare le esecuzioni in concerto. Il verismo musicale mi sembrava invece molto distante dal mio modo di sentire (ero troppo giovane...), museale, di un gusto stantio e volgare soprattutto nella drammaturgia; Verdi mi appariva modernissimo al confronto, anche per le sue mature scelte dei testi della grande letteratura e le meraviglie strumentali e armoniche di Don Carlo, Otello e Falstaff, per non parlare del suo incredibile quartetto per archi o la potenza espressiva del Requiem; mi sembravano questi dei punti di partenza più che di arrivo, dei modelli di perfezione assoluta da studiare e emulare, porte che aprivano altre porte sul futuro. Tutte cose che penso ancora oggi naturalmente.

    3.    La musica italiana del mio secolo mi appariva ricca di segnali eterogenei stilisticamente, a volte contrapposti e in questo senso per un musicista  ventenne, la cultura ufficiale, i libri di storia della musica, non aiutavano a distinguere, conoscere, scegliere con dati certi e valutazioni obiettive. Quel poco che si riusciva ad ascoltare però degli autori italiani tra le due guerre, Ghedini, Malipiero, Casella e tanti altri fino a Menotti, e parlo di Milano, ogni voltami lasciava pieno di curiosità insaziata, mi sembrava che sotto la superficie delle rare esecuzioni si nascondessero altre pietre preziose seppellite da incomprensibili censure e apodittici giudizi severi, complice lo spettro orrendo di un conflitto le cui macerie ricoprivano ancora la società e la cultura. La presa di potere delle avanguardie nel primo dopoguerra dava poi un colpo di grazia ad almeno due generazioni di musicisti travolgendo il buono e il cattivo indistintamente. Questo lo si capiva bene, bastava accennarne tra colleghi studenti e musicisti, gli slogan negativi erano abusati e certi nomi erano impronunciabili, si faticava non poco a trovare testimonianze musicologiche prive di astio polemico e veleni ideologici. Penso sia stato un vero dramma che ha lasciato sul campo vittime inutili ancorché di grande importanza e valore.

    4.    I miei Maestri reali sono stati Angelo Paccagnini, col quale oltre alla musica elettronica nel suo pionieristico corso al Conservatorio di Milano cominciai privatamente a studiare la tecnica orchestrale e scrivere le mie prime vere composizioni strumentali, Niccolò Castiglioni col quale mi diplomai in Composizione e Flavio Testi, nel cui corso superiore di Storia della Musica potei approfondire e analizzare il repertorio operistico dall’ultimo Verdi fino a Wozzeck, cosa che era quasi impossibile fare allora nei corsi di composizione ufficiali. I maestri virtuali e ideali sono stati tanti, da Mahler a Strauss, da Stravinsky a Britten, da Debussy a Ravel, da Prokoviev a Sostakovich, Janáček, Korngold, Schreker, Messiaen...anche se il mio modello era Robert Schumann, poeta della fragilità e del languore sensuale. Qualche anno dopo il diploma cominciai timidamente ad affrontare lo studio di Wagner che poco per volta mi ha soggiogato nel suo vortice spazio-temporale così potente e sensuale.

    5.    Il Conservatorio di Milano era allora il centro musicale più importante in Italia, insegnavano i più famosi compositori della generazione dal ’20 al ’40 e gli editori (Ricordi, Suvini Zerboni e Sonzogno) erano in fibrillazione, pronti a pubblicare e promuovere gli autori d’avanguardia e i loro discepoli, c’erano le orchestre sinfoniche della Rai, festivals di musica nuova su tutto il territorio nazionale, nuove musiche venivano commissionate, eseguite e registrate in modo capillare e costante. Insomma la stagione musicale felice degli anni settanta-ottanta. La critica era militante, legata agli interessi comuni di editori e istituzioni in un circolo apparentemente virtuoso di spinta e sostegno per la musica contemporanea. Così tutto sembrava presupporre un avvenire pieno di arte nuova e di pubblico nuovo, ma le cose non erano esattamente come apparivano essere.

    6.    Ben presto, a cominciare dalle aule del Conservatorio milanese, l’ideologia “evoluzionista” del progresso continuo del linguaggio musicale in perenne rivoluzione, mostrò la sua faccia pedante e discriminatoria trasformandosi velocemente in accademia, all’infuori della quale nulla di buono poteva quantomeno coesistere. La classe di composizione di Niccolò Castiglioni era un’isola felice, forse l’unica, dove giovani naufraghi coltivavano passioni diverse, interessi e curiosità musicali che altrimenti non avrebbero trovato possibilità di risposte e ascolto. La sua musica, anomala e indipendente rispetto all’ortodossia delle avanguardie seriali e post Darmstadt, includeva elementi della musica tonale e un metodo di scrittura lontano anni luce da quello di molti altri suoi illustri colleghi, un metodo affidato al rapporto diretto con il suono, con l’orecchio, fuori da ogni calligrafismo e compiacimento di musica “scritta”. Questa alterità faceva sentire noi allievi una specie di setta, in parte vista con sospetto, ma rispettata per l’autorevolezza dell’insegnante, anch’esso comunque anomalo in un sistema che solo a parole invocava la molteplicità. Mai un cenno da parte sua di disapprovazione per scelte lontane dal suo stile, nessuna costrizione sulla metodologia per comporre, nessuna traccia di “plagio” calligrafico come invece era frequentissimo intravvedere nelle partiture di nostri colleghi studenti in altre classi.

    7.    L’insegnamento di libertà e di curiosità di Castiglioni, nella cui classe portavamo le partiture di autori diversissimi e in gran parte dei grandi autori novecenteschi, ci indirizzava tutti verso una visione panoramica del linguaggio musicale; per me in particolare l’antipatia viscerale verso la dodecafonia e la noia abissale che le esecuzioni dei profeti dell’avanguardia mi provocava in ogni occasione, furono la chiave per giungere a un naturale, biologico rifiuto di qualsiasi metodo astratto legato al comporre. Naturalmente nelle giornate passate in biblioteca a decifrare e fotocopiare le partiture anche di Boulez, Berio, Nono, Stockhausen e le ore al pianoforte tentando di ricostruire la logica del loro discorso, mi ritrovavo a pensare che quelle belle partiture alla fine di ogni mio sforzo non mi attraevano affatto, non riuscivano a oltrepassare il limite per me invalicabile di oggetti alieni di pura scrittura, vanificando i miei sforzi di studente desideroso di capire e far parte di quel nuovo mondo. Un pò di frustrazione all’inizio, presto compensata dalla scoperta che non ero il solo ad avere queste reazioni allergiche.

    8.    Quello che mi convinceva e attirava era la musica scintillante e ricca di vitalità e colori tipica delle avanguardie parigine, russe e dei meravigliosi corni magici mahleriani, i grovigli contrappuntistici delle partiture teatrali straussiane, insomma quella musica moderna che comunicava direttamente al mio orecchio senza intermediazioni teoriche e senza limitazioni e filtri all’idea di una nuova possibile complessa e ricchissima bellezza sonora, bellezza immediatamente percepibile, sensuale, che come giovane autore potevo assimilare senza sforzo e tentare di emulare. Questa percezione di “comunicazione” di bellezza e possibilmente di verità, era necessità imprescindibile, era il mondo in cui volevo stare, in cui avrei sempre voluto stare. Questa musica volevo scrivere, riproducendola in libertà, cantandola, come fosse stata scritta tutta da me, da sempre.

    9.    Il teatro musicale ha avuto una grande influenza sulla mia passione per la musica in generale cominciando dal balletto però. Mia madre, che aveva studiato e danzato alla Scala, mi parlava fin da piccolo della danza e della bellissima musica per la danza, Tchaikovsky ma anche quei minori autori “artigiani” che mi attraevano con le loro seducenti facili melodie. Il palcoscenico, le punte, il tutù, poi Diaghilev e la mitologia dei Ballets Russes, Stravinsky! Stranamente solo negli ultimi dieci anni ho finalmente cominciato a scrivere molta musica per la danza. A mia madre devo anche la passione per l’opera, la sentivo spesso canticchiare arie di Puccini che sapeva a memoria e comunque in casa mia la musica, anche per il lavoro di mio padre, risuonava continuamente, tutta la musica, le canzonette e il jazz, l’opera e la musica sinfonica...mio padre aveva una collezione di migliaia di dischi. Verdi e Puccini, studiati e amati nella classe di Flavio Testi, ascoltati nelle grandi interpretazioni scaligere di quegli anni e poi le scoperte novecentesche fino a Janáček e Britten, passando per Strauss, più tardi il lento inesorabile avvicinamento a Wagner, tutta questa tradizione attraverso la parola scenica, il canto, mi sembravano la vetta massima che ogni compositore poteva ambire di raggiungere. Alcuni miei colleghi già si cimentavano con l’opera, genere che più di tutti l’avanguardia seriale disprezzava e ignorava come vecchiume; era logico che il nostro movimento di opposizione tenesse il teatro musicale come primo oggetto del desiderio, veicolo ideale per rispondere coerentemente al dogma della rivoluzione permanente, perché giustamente autori italiani, diretti discendenti di un passato così unico. Con la mia ALICE, scritta tra il 1986 eil 1992, contribuii con uno sforzo immane (tre atti, orchestra enorme, 12 cantanti e una durata di quasi tre ore) al progetto Opera che ci legava quasi tutti. Sicuramente questo genere, legato al canto e alla scrittura melodica, è stato un perno fondamentale del movimento neoromantico e lo è tuttora.

    10.  Ho sempre amato la pittura e la poesia, in casa avevamo una piccola collezione ditele novecentesche, in alcuni casi di amici diretti di mio padre, acquistati negli anni trenta e quaranta spesso per pochi soldi. Sono stato attratto fortemente dal disegno io stesso ma con scarsi risultati. Ho sempre preferitole arti figurative alla letteratura perché coinvolgeva il corpo, un’arte fisica a contatto con la materia grezza, con oggetti reali e cose reali e la poesia perché più vicina alla sintesi tipica del suono, senza descrizioni aggiuntive e psicologismi. Il mio approccio verso la scrittura musicale è più vicino a quello di un pittore o scultore o di un poeta piuttosto che un romanziere., per me ha importanza il suono come risultato di un gesto fisico ispirato da un‘intuizione poetica misteriosa ma viscerale, non astratta. Per anni ho frequentato con assiduità mostre d’arte e gran parte della mia cultura letteraria è fondata sulle opere dei poeti, da Ovidio in poi, fino ai miei contemporanei di alcuni dei quali sono anche amico e che ho musicato.

    11.  Nonostante nella casa paterna come ho detto, ci fossero ascolti continui di musica anche extra colta, (mio padre ha scritto quasi tremila canzoni come paroliere) la musica leggera, il pop e il jazz hanno avuto pochissima influenza sul mio stile e sulla mia formazione anche se da adolescente mi cimentavo a suonarla con gli amici nelle cantine. La forma della canzone era troppo semplice per me, un recinto angusto per farci stare tutto quello che mi passava per la mente. La musica americana, attraverso la figura iconica di Bernstein mi attirava per il profumo di libertà d’azione fuori dalle accademie e in generale anche le primissime produzioni minimaliste, Riley e La Monte Young e poi Reich e anche Glass, mi hanno confermato in questo sentimento contrapposizione quasi fisica alla tetraggine europea della seconda scuola viennese e ai suoi post profeti.In particolare ho amato l’ipnotica bellezza statica della musica di Morton Feldman e la gioiosa ironia di Cage, tutti interpreti di una fisicità nel contatto musicale che mancava totalmente nei super-intellettuali autori europei, l’ascolto di alcune opere sinfoniche di Ives mi aveva sconvolto con la sua paradossale autobiografica e personalissima rivoluzione di ascolti sovrapposti, un Mahler all’ennesima potenza. Ho amato Barber prima e poi Menotti (che in realtà è un autore in tutto e per tutto italiano), sensibili interpreti della ricongiunzione delle due culture, americana e europea, con opere teatrali di grandissimo valore negli stessi anni in cui il vecchio continente si struggeva nella confusione di una “ricerca” distruttiva.

    12.  La mia sensazione di libertà di pensiero musicale era in quegli anni continuamente messo alla prova dal contatto ostile e sospettoso del salotto buono della cultura ufficiale, irrigidito da protocolli tanto particolareggiati tanto oscuri. Ero libero di creare musica diversa ma sapendo che non avrei trovato un terreno fertile e ricettivo, dovevo strategicamente essere inattaccabile sul piano tecnico perlomeno, per rendere più difficile la critica sul piano artigianale, una libertà faticosa, ma forse la libertà di espressione chiede sempre un prezzo da pagare. In compenso a soli ventitré anni ero già edito da Ricordi e questa ufficialità mi suonava come palese riconoscimento del mio talento naturale; trovare subito dei compagni di strada mi ha aiutato enormemente, nel confronto e nella emulazione la mia idea di libertà ha trovato presto la sua espressione.

    13.  La quasi involontaria nascita del piccolo gruppo di autori poi chiamati neoromantici nel 1980 creava una base abbastanza solida al nostro lavoro, solida perché solidale nel vagheggiare una musica simile a quella che amavamo anzitutto, in secondo luogo perché formata da elementi molto diversi sul piano umano e artistico, una diversità tangibile ma in espansione rapidissima, fortemente coesa da gusti e affinità ma ricchissima di sfaccettature e varianti; in qualche modo mi sembrava si riproducesse quella meravigliosa stagione dell’inizio secolo dove fermento giovanile e desiderio di essere protagonisti insieme di un’unica grande storia sembravano a portata di mano. Alcuni ci credevano forse più di altri ma queste erano sottigliezze.

    14.  Nei nostri incontri spesso molto divertenti e altre volte vicini allo psicodramma, ci si confrontava su tutto, la musica naturalmente prima di tutto, per alcuni la “strategia” era magari più importante ma i ruoli si definivano di volta involta come in una commedia work in progress dove gli attori cambiano ruolo a seconda delle circostanze. Nelle nostre discussioni, che erano anzitutto tra amici, gli argomenti erano quasi sempre vicini alle cose dell’arte, non ricordo che la politica, se non appunto mediata da argomentazioni di strategie d’azione, facesse parte del nostro pensiero comune. Tra alcuni di noi c’era sicuramente una vera amicizia e anche un reale legame di affetto e stima e questo ci trasportava in un territorio emozionante, si rifletteva poi nel lavoro personale in qualche modo, era evidente e le reciproche influenze si rivelavano nel giro di poche settimane, ad ogni nuovo brano composto. Per un breve periodo mi sono sentito un compositore fatto da tanti compositori, in un divenire costante, millimetrico e vorticoso.

    15.  Il mito del cinema, la musica per il cinema sono argomenti che spesso erano posti come riferimento alternativo alla rigida cerimonia del concerto, la struttura del commento musicale di una scena per alcuni di noi era un possibile modello; io ritenevo il cinema un’arte divertente ma pericolosamente propensa a schiacciare tutto ciò che non riguardava l’immagine e al suo potere e non ho trovato in questi anni prove sufficienti che mi facessero pensare come possibile una musica con adeguato quoziente artistico integrata alle immagini cinematografiche in uno scambio alla pari; penso che non sia giusto oltreché possibile, se è vero che un film senza musica perde moltissimo nel definire il clima psicologico è altrettanto vero che quella stessa musica ascoltata senza immagine regge solo se ascoltandola ricordiamo il suo abbinamento visivo. Sarebbe stato bello tentare qualche esperimento ma non mi pare che nessuno di noi abbia veramente voluto provarci e oltremodo è un ambiente molto refrattario agli estranei. Oggi la televisione ha in parte cannibalizzato e standardizzato le emozioni del cinema e anche i più grandi autori di Hollywood, come alcuni bravissimi europei dopo Morricone, scrivono colonne sonore piene di stilemi e luoghi comuni facilmente riproducibili in serie, il pianoforte solo, gli archi che fanno il tappetino, il crescendo dei corni con il piatto sospeso eccetera...sempre uguale, sempre prevedibile...con bellissime però rare eccezioni.

    16.  Il pubblico come soggetto definibile non esiste ovviamente e forse nemmeno un pubblico ideale. Più interessante sperimentare l’ascolto della propria musicai n situazioni molto differenti per capire quali diverse reazioni si creano e perché, sperimentando anche se è meglio scrivere un finale in crescendo o chiudere in pianissimo e così via. Il pubblico di specialisti che vengono a sentire quel concerto perché sanno tutto di ciò che ascolteranno è un pubblico auspicabile ma truccato, meglio andare senza rete di protezione e affrontare, come feci a ventisei anni con la mia Prima Sinfonia, il pubblico eterogeneo di normali abbonati al ciclo di concerti Rai dopo aver chiesto e ottenuto dal direttore artistico che me la commissionò, di evitare di includere in esclusiva quel concerto nella stagione “specialistica” di Musica del Nostro Tempo nel1985, sottraendomi a un probabile circoscritto ghetto di bene o male intenzionati preconfigurato. Io ho sempre pensato che la musica e l’arte ingenerale abbiano un valore anche etico, di miglioramento della nostra vita reale e quindi desidero che tutta l’arte serva a qualcosa, sia integrata nell’esistenza, ci parli e esprima sentimenti condivisibili, aspiri a una bellezza possibile, riconoscibile, di elevato valore spirituale, fuori dal tempo e dalla moda contingente, un’arte che comunichi semplicemente la complessità, l’eternità.

    17.  Come ho detto prima la politica era ed è rimasta fuori dalla mia sfera attiva di interessi e ho sempre diffidato degli artisti che si impegnano politicamente abbracciando un’ideologia. Credo nell’impegno sociale dell’arte attraverso i suoi mezzi naturali, con la potenza espressiva che può se non cambiare il mondo, magari renderlo meno brutale. Certamente l’arte vera sta sempre dalla parte giusta, quella dell’essere umano e dei suoi bisogni, della sua dignità terrena e con le sue infinite debolezze e paure.

    18.  Avere rapporti con enti musicali, teatri e editori fa parte del fardello di incombenze necessarie e spesso sgradevoli che un compositore deve affrontare, ma vuol dire soprattutto avere a che fare con altri uomini e donne che fanno quello specifico lavoro e che come tutti rispondono spesso ad altri uomini e donne del loro ruolo e delle scelte; una catena difficile da seguire ma ineludibile. Dipende molto dall’attitudine caratteriale e dalla voglia di essere disponibili al compromesso, anche innocente e sopportabile. Se con gli editori ho avuto un rapporto costante ma non per questo sempre fruttuoso, molto peggio è andata e va con le istituzioni, la cui attuale decadenza anche morale oltreché organizzativa almeno in Italia, rende il mestiere del compositore assolutamente inadeguato, fuori da ogni logica di business, senza alcun rapporto apparente tra qualità del prodotto offerto e relativo riscontro, in un intricato sistema di relazioni che mettono a durissima prova il sistema nervoso e l’immaginazione. Ci sono realtà che interrompono questa normalità distorta e quando mi capita di trovare interlocutori veramente disponibili è come trovare un tesoro inaspettato, anche solo per parlare dell’oggetto in sè, della musica che stai proponendo. Ci vorrebbe una vera rivoluzione in questo labirinto ma non so chi potrebbe esserne nuovo protagonista e con che successo se non si ricrea un “mercato” della musica d’arte. Sarebbe bello se si creasse un circolo virtuoso di committenza privata fuori dalle istituzioni pubbliche ma ancora non vedo nulla di solido all’orizzonte italiano.

    19.  Come ho detto all’inizio la musica di derivazione tonale dei grandi autori del primo novecento fuori dalla scuola di Vienna era per me il modello da cui cominciare, un modello testato e ampiamente collaudato da capolavori entrati nel repertorio. Questo mi rassicurava e rafforzava nel convincimento che la strada era non solo ancora percorribile ma erano praticabili nuove interpretazioni e variazioni, la musica di Castiglioni andava in questa direzione per esempio. Non c’erano proibizioni ma solo finestre da aprire, non dogmi astratti ma spazi creativi in cui la trasformazione del materiale era anche ludica. I miei studi accademici, strutturati su testi molto rigidi e pedanti ma necessari a una formazione disciplinata, si focalizzarono poi sullo studio del madrigale cinquecentesco che mi attirava enormemente per il rapporto tra linee contrappuntistiche e interpretazioni espressive del testo poetico. Questo studio ha segnato profondamente la mia prima fase creativa; la mia armonia, i miei colori strumentali derivavano dalla rielaborazione orizzontale di accordi sentiti come linee melodiche; Stravinsky prima e poi Strauss mi indicavano in questo senso come rileggere l’armonia tonale tradizionale. Di fatto non ho mai ragionato razionalmente in modo tonale né mi sono preoccupato di elaborare dei criteri a priori con cui preparare una composizione; stare al pianoforte e anzitutto improvvisare, lasciare che i miei accordi e melodie arrivassero dall’orecchio sulla punta delle dita, questo era ed è il mio sistema. La forma variazione in seguito ho scoperto essere la mia forma ideale, naturale, la più adatta a convogliare ordinatamente il mio pensiero rapsodico. Lo studio dell’orchestrazione mi ha da subito appassionato e la mia ammirazione per i compositori virtuosi del timbro, i russi anzitutto, mi ha guidato del tutto spontaneamente verso il mio suono personale e con esso il mio stile. Per scrivere musica la tecnica è indispensabile ma la naturale sorgiva sensibilità per il timbro può fare la differenza.

    20.  La mia prima insegnante di pianoforte e solfeggio tra i cinque e gli otto anni era se non ricordo male la moglie del più famoso Francesco Tissoni pianista e didatta autore di molte raccolte di pezzi infantili, roba tipo "Anime infantili" del 1927 (l'ho ancora da qualche parte)...io ero intollerante allo studio metodico dello strumento, odiavo fare le scale e rispettare le diteggiature, preferivo improvvisare e pasticciare sugli esercizi. Mi sarebbe molto piaciuto suonare la viola, che adoro, l’arco che scivola sulle corde è affascinante e poi anche il solo nome mi evocava qualcosa di misterioso, un suono sommesso ma molto sexy! Ho capito presto di non avere un talento specifico né la voglia di sacrificio necessaria per applicarmi allo studio vero dello strumento e così ho mantenuto un mediocre rapporto manuale sviluppando lamia capacità di usare le mani per decifrare e leggere le musiche scritte e pian piano improvvisare e trovare le cose che cercavo sulla tastiera attraverso le dita. In seguito al Conservatorio mi sono adattato a studiare con metodo ma non certo al punto di considerarmi un pianista, solo un lettore, questa cosa mi piaceva molto e mi è servita a capire cosa dovevo fare e perché. Non essere uno strumentista mi ha dato il vantaggio di considerare tutti gli strumenti come flessibili e modulabili, fuori dalla loro gabbia e letteratura interpretativa tradizionale; lo studio teorico della tecnica degli strumenti ha stimolato in realtà la capacità di ricreare nel mio orecchio interno il loro suono e la gestualità legata alla produzione specifica del timbro, la loro “comprensione” è cresciuta dentro la mia testa e da un certo momento è come se avessi imparato a suonarli tutti veramente. L’ammirazione per chi sa suonare bene uno strumento non è diminuita ma mi sono consolato cercando di diventare un virtuoso della scrittura.

    21.  Mi sono sempre opposto al postmodernismo come pastiche che prefigurava un appiattimento dei significati e delle diversità in nome di una ricostruzione a freddo delle cose artistiche, private della loro unicità e della memoria, un mostro su un tavolo obitoriale in cui i pezzi diversi di corpi diversi si potevano rammendare anche casualmente in modo oggettivo, senza una direzione espressiva chiara, un puzzle nutrito da una ambiguità che diveniva il vero significato e valore; l’eclettismo stilistico mi spaventava prima ancora che infastidiva, la patente di artisticità era a portata di mano per chiunque si atteggiasse spregiudicatamente come abile assemblatore di oggetti incoerenti. Sotto questa parola ambigua, necessariamente ambigua, ho trovato per lo più cose poco interessanti, mediocri tentativi di riciclo seriale di forme in sé bellissime e ridotte a semplici icone senza vita. Un vero preludio alla globalizzazione. Le mie idee sull’arte e la musica erano in aperto dissenso su questa operazione a freddo, ero molto contrario all’idea che i generi musicali dovessero mescolarsi, e lo sono tuttora, ogni cosa doveva mantenere la sua autenticità e il suo ambito espressivo. La contaminazione per esempio con la musica pop, allora tanto di moda, non mi attraeva affatto, mi sembrava anzi ridicola nei risultati, perdente rispetto agli originali. Ho pensato che il nostro movimento dovesse in realtà cercare una omogeneità stilistica attraverso la continuità con il passato abiurato dalla cultura ufficiale ma mi accorsi a un certo punto di essere isolato in questa idea, come un custode del Graal che nessuno cerca più e che se anche lo vedesse non saprebbe riconoscere. Continuo a detestare questa idea banale di postmoderno dove tutto è uguale a tutto.

    22.  Sgombrando il campo dalla definizione di postmoderno applicata al movimento neoromantico, posso dire oggi che anche se non pensavo in termini di espressione di un genius loci vero e proprio, mi pare che la sua unicità storica e territoriale sia un fatto reale e azzarderei che solo in Italia poteva nascere questa reazione al razionalismo estremo, un razionalismo “luterano”, nordico, severo, molto distante dalla sensibilità mediterranea. La Nuova Semplicità dei colleghi tedeschi mi sembrava fumosa, una rifrittura più consonante dell’espressionismo condito con abbellimenti posticci, una parrucca rossa su un cadavere in putrefazione, tanto rumore per nulla ancora una volta. Non sapendo bene cosa volessero semplificare e come i contati praticamente non ci furono e neppure un vero scambio. Certo l’informazione sul loro lavoro era scarsa e depistata, Rihm e Trojan erano i nomi più noti ma poca musica filtrava. Era paradossale se non tragico però vedere i musicologi militanti italiani pronti a interessarsi di loro e al contempo altrettanto pronti a stroncare le nostre opere. Nessuna eredità positiva mi sembra che questi autori abbiano lasciato al contrario del neoromanticismo italiano; la mancanza di gusto e stile dell’arte tedesca dal dopoguerra a oggi mi pare incontestabile, dalle arti visive alle regie d’opera, i compositori più à la page attuali sono quanto di peggio si può ascoltare in Europa e nel mondo globalizzato.

    23.  Una delle cose straordinarie del periodo, a proposito del genius loci, fu la convergenza poco più che casuale di arti diverse verso un nuovo centro, un pensiero che superasse il conflitto “sociale” delle avanguardie post belliche isolate nel loro ghetto di intellettuali senza seguito popolare. Ero molto interessato a tutto quello che si muoveva in questa nuova inattesa direzione e amando la pittura e la poesia ero in prima linea su questo doppio fonte. Miei amici pittori e poeti, alcuni dei quali protagonisti di queste correnti di “liberazione”, erano al centro dei miei interessi almeno quanto i miei colleghi compositori. Il libro di Jean Clair "Critica della modernità" uscito nel 1983, fu di fondamentale importanza per me. Non mi pare di averne mai condiviso l 'influenza con i miei compagni di allora perché non ricordo ci fosse in loro un interesse per la pittura contemporanea. Le idee di Clair mi diedero coraggio e stimoli, tutto quello che nel nostro mondo musicale stentava a emergere, un mondo veramente “lento” e conformista, nelle arti figurative si stava improvvisamente muovendo con grande velocità. La Transavanguardia era l'equivalente in quel momento del nostro neoromanticismo ma loro avevano l'appoggio di Bonito Oliva e soprattutto agivano con il supporto quasi immediato del collezionismo, dei galleristi e delle istituzioni museali pronte a cogliere l'attimo propizio e sfruttarlo. In quel movimento vedevo la vera reazione all'arte concettuale attraverso il ritorno alla pittura, al disegno, al colore, alla tecnica, alla forma. Avevo bisogno di trovare conferme alle mie intuizioni e aspirazioni, lì riuscivo a vederne dei frutti molto importanti. Ho amato molto il primo periodo dei pittori della Transavanguardia, Chia e Cucchi soprattutto mentre per la poesia il mio contatto diretto e l’amicizia con Bramati, Pontiggia e poi con Giuseppe Conte mi ha aiutato a trovare altro materiale fertile per me. Il gruppo di poeti raccolti attorno alla rivista Niebo e poi alla pubblicazione “la parola innamorata” si configurava come la più interessante reazione allo strutturalismo razionalista del Gruppo 63. Mi sembrava che queste convergenze fossero un segnale chiaro che ci fosse un sentimento comune, un sotterraneo flusso di idee convergenti e condivisibili. Mi sentivo al centro di una rivoluzione spirituale che desideravo con tutte le mie forze si avverasse, una rivoluzione verso la bellezza. In parte è stato così.

    24.  Non riesco a pensare a una vita diversa dalla mia, non mi vedo capace di vivere in un mondo diverso da come lo vedo in quanto compositore. Non è una professione ma una condizione naturale per la quale ero e sono disposto a fare qualsiasi cosa pur di non rinunciarvi. Io esisto come uomo perché sono un compositore, nel bene e nel male.

    25.  Ho avuto una breve esperienza di insegnamento istituzionale e poi sporadici allievi privati o attraverso masterclasses. Non ho avuto nemmeno figli e quindi non so immaginare come sarei se queste realtà fossero state diverse. So che fui in parte deluso dal contatto con gli allievi in Conservatorio, deluso dalle circostanze generali, dall’appiattimento del livello culturale generale e dalla mancanza di entusiasmo di colleghi e allievi, molto diverso dal periodo in cui ero io allievo. Attualmente ho ripreso contatto con giovani aspiranti compositori e la fiducia nella possibilità di essere utile in qualche buona misura alla loro crescita generale mi sembra aumentata, forse i tempi sono di nuovo maturi per una seconda rivoluzione. Di fatto in Italia il movimento ha lasciato un’eredità che è pur minoritaria ma molto agguerrita e chiara nelle intenzioni, senza i dubbi che avevamo noi ma anche senza quel terreno fertile di scambio che ci ha dato spazio e voce. Sto personalmente tentando di lavorare con pazienza a questo strappo e spero che i miei amici mi aiutino in questo. Essere direttore di qualcosa mi è sempre sembrato improponibile per il semplice motivo che non riesco a non dire quello che penso. Avrei tante belle idee al riguardo però.

    26.  Non so cosa farei se insegnassi davvero, cercherei di trasmettere la gioia di ascoltare il suono e interiorizzarlo, mi sforzerei di spiegare quanto è importante ascoltare il proprio “canto”, assecondarlo e trasformarlo in un oggetto emozionante. Non so se si può fare in una scuola istituzionale, combattendo con le riforme e le atrocità ministeriali.

    27.  Lo ripeto spesso, per me arte è etica, serve a migliorare la nostra coscienza, ad affinare il nostro gusto per la bellezza e l’eternità delle cose, serve a ridare speranza e nutrimento alle nostre vite spesso grigie, incarcerate, monotone. L’arte è la religione perfetta perché umana e divina al contempo. Io vivo per tentare di essere parte attiva di questo.

    28.  Ho già accennato a questo ma voglio dire che oggi sento molto questo aspetto del genius loci e della necessità di elaborare un pensiero nuovo su questo. Non si tratta di scuola nazionale ma di essenza oggettiva, per noi artisti italiani c’è più di altri popoli una oggettiva spontanea propensione per la luce e la bellezza in chiaro, luce e chiarezza che sono nel paesaggio e nell’arte che abbiamo sempre prodotto, una sensualità che ci contraddistingue e separa verticalmente dalle rigidità del mondo nordico ad esempio, più cerebrale e concentrato. La nostra dispersione nel mare delle bellezze spontanee è per noi cosa ovvia, inconscia, spudorata, non ne abbiamo una vera coscienza perché congeniale al nostro genius loci, inestirpabile ma anche certamente molto esportabile. Il made in Italy, per considerare gli aspetti più materiali, è una realtà complessa ma giustificata e comunque un tenace avversario della perfidia ottusa della globalizzazione. Non so se l’arte italiana possa esistere in quanto tale, c’è molta confusione su questo e la contaminazione linguistica è un dogma che appare ancora forte e imbattibile; nella musica contemporanea oggi si parla questo esperanto di gesti musicali, un catalogo inutile di cose che hanno un solo passaporto e non ci trasportano mai in un luogo preciso se non in un paese generico dove si parla un’unica incomprensibile lingua. Lo stile dei compositori lascia spazio agli stilemi, l’appartenenza territoriale e culturale è sostituita da una password criptica che elimina il punto di vista soggettivo, la propria storia, il vissuto. Un autore aggiornato, che ha seguito le istruzioni in esperanto su come ci si deve comportare in società, può essere nato nel Congo o in Islanda, nulla sapremo di lui e nulla comparirà della sua vita e del suo genius loci all’ascolto della sua musica. Potrebbe essere chiunque in qualunque luogo, l’importante è che sia aggiornato, che si capisca che ha fatto l’aggiornamento, pena l’esilio nel passato, nell’ epigonismo, nella non cultura. Nelle musiche degli autori italiani neoromantici ci sono molti messaggi espliciti di condivisione di una appartenenza, mi piace definirla una comune appartenenza alla luce, italiana. Credo che sarà questa una delle strade per la rinascita creativa della musica d’arte nel mio paese.

    29.  Penso che ci siano le condizioni, vista la gravissima situazione di imbarbarimento culturale, per una nuova forma di espressività basata su quella esperienza artistica iniziata trent’anni fa, proprio  a causa di questa devastazione. Molti segnali importanti tra i giovani autori e molti anche tra noi più vecchi protagonisti, una sorta di risveglio naturale dopo un attivo silenzio, una voglia di riconnettersi gli uni con gli altri che avevamo dimenticato. Non è più tempo di polemiche sterili tra partitelli contrapposti, quelle idee restano intatte perché erano fondate non su una ribellione generazionale o su una moda passeggera ma su principi di coscienza e consapevolezza del significato di comunicazione artistica che erano frutto di un’eredità secolare, profondamente radicata nella storia e nell’evoluzione spirituale occidentale.

    30.  Tra le mie composizioni più significative posso citare anzitutto “Le nuvole” con cui esordii alla Biennale di Venezia del 1981, un brano da camera che in omaggio al mio Maestro Castiglioni, assorbiva insieme ai suoi insegnamenti anche le influenze che accomunavano lui e me, cioè Stravinsky e Messiaen. La “Prima Sinfonia” del 1983/84 , tra le mie prime importanti commissioni, attorno alla quale sicuramente ci fu una bella concentrazione solidale tra noi amici neoromantici, in questo caso il mio raggio di influenze si ampliava accogliendo i primi segni del mondo mahleriano e straussiano; “Alice”, mia prima opera in tre atti andata in scena a Palermo nel 1993, sicuramente un punto di arrivo di tutto il mio lavoro in quasi  quindici anni di produzione, concentrato di tutta la mia energia poetica e artistica e manifesto perfetto di tutto ciò che avevo pensato musicalmente e per cui mi ero battuto senza risparmio. In qualche modo potrei affermare che Alice, la mia Alice, c’est moi!

    31.  Nel 1999 acquistai il mio primo computer, forse fui l’ultimo in ordine di tempo trai miei amici compositori. L’inizio fu terribilmente difficile, erano più di vent’ anni che lavoravo con carta e matita, il mio callo sul dito medio testimoniava quanta fatica e giornate erano passate a scrivere musica su ogni tipo possibile di foglio da musica. Dopo sei mesi di trauma cominciai ad apprezzare la comodità dei programmi di scrittura musicale digitale e questa comodità mi ha reso la vita molto più semplice contribuendo anche sul piano della velocità creativa. I benefici seguenti della rete, la possibilità di ottenere e fornire informazioni di ogni genere in tempo reale sul web ha enormemente potenziato e amplificato la mia capacità di far conoscere il mio lavoro e informarmi su quello degli altri. Gli sviluppi della tecnologia sul piano artistico sono talmente profondi e potenzialmente senza apparente limite e mi sono molto adattato a cercare di sfruttarne i vantaggi, in particolare perla scrittura con strumenti virtuali nella musica per la danza. I miei antichi studi di musica elettronica sono tornati utili anche per questo scopo. In me adesso convivono almeno due anime del tutto compatibili ma stilisticamente affatto contrapposte, una più “tradizionale” nel metodo della scrittura strumentale, l’altra più libera e sperimentale perché non vincolata ai limiti della manualità degli interpreti e delle limitazioni delle consuete fonti sonore acustiche. Anche la diffusione digitale della musica e il suo commercio così semplificato e capillare mi fanno sperare che ci sia un margine positivo di guadagno e diffusione anche per la musica d’arte nel mondo, senza censure o imposizioni di logiche commerciali: una nicchia di mercato certamente ma abbastanza grande da soddisfare chi ha qualcosa di interessante da vendere.


INTERVISTA per Il Nuovo Berlinese a cura di Michela Buono (2016)


    Lei ha studiato al Conservatorio di Milano con Angelo Paccagnini per quanto riguarda la composizione e la musica elettronica e  con Niccolò Castiglioni. La musica classica è un punto di partenza fondamentale ed anche formativo, cosa ne pensa?

Penso che lo studio della teoria musicale, del solfeggio e della storia della musica dovrebbero essere una necessità primaria per l’istruzione di un popolo. Ascoltare e consumare musica con la consapevolezza di come è fatta e su quali parametri acustici, semiografici, psicologici, diventerebbe un valore aggiunto straordinario per districarsi tra generi e stili, coscientemente e fuori da imposizioni di gusto e di mercato. Saper suonare uno strumento, anche solo a livello dilettantesco sarebbe una ricchezza vera per tutta la vita di ogni persona, a prescindere dalla professione e dalle condizioni economiche. La cosiddetta musica classica, che preferisco chiamare musica d’arte, è una parte imprescindibile di tutta la storia della musica in generale in quanto musica scritta e tramandata attraverso il linguaggio dei segni musicali occidentali; la scrittura musicale, la sua lettura, sono i fondamenti per qualsiasi stile musicale e non tolgono nulla alla spontaneità della musica cosiddetta leggera, quella che non ha la vera necessità di essere tramandata come scrittura. La musica in buona sostanza è un’arte molto tecnica, prevede uno studio fisico e teorico molto profondo e raffinato e “crudele”, faticoso, ma più si va in profondità con lo studio maggiore diventa la gioia e la possibilità creativa e espressiva di ogni individuo. Ai maestri con cui ho studiato vorrei aggiungere Flavio Testi, sempre al Conservatorio di Milano, cui debbo molte preziose lezioni sul melodramma.


    Figlio delle scrittore e giornalista Giancarlo Testoni e pronipote del poeta Alfredo Testoni. Quanto hanno inciso queste due figure nella sua carriera?

Mio padre Giancarlo era famoso come “paroliere”, scrisse più di tremila canzoni in poco più di un ventennio dalla fine della seconda guerra mondiale e lavorò con i più importanti compositori di canzoni italiani della sua epoca, tra questi anche Nono Rota, contribuendo alla nascita della canzone come forma d’arte applicata all’industria della radio e poi del disco, fondò la prima rivista italiana di Jazz, Musica Jazz, appena finita la guerra, dopo aver coltivato, nel segreto delle cantine di Bologna, la passione per questa nuova musica americana che era proibita dal regime fascista ma che riusciva a conoscere con l’ascolto clandestino dei primi dischi importati illegalmente dagli USA grazie ad amici residenti laggiù, scrisse anche la prima enciclopedia italiana del jazz e ha lasciato anche incompiuta la prima, credo, biografia italiana su G. F. Haendel. Purtroppo è mancato ancora giovane e di lui ho un ricordo vivo ma soprattutto un vuoto affettivo incolmabile, fu lui a farmi prendere le prime lezioni di pianoforte verso i sei anni con la professoressa Tissoni a Milano, la mia città. Sono certo che sarebbe stato felice di vedermi diventare un compositore. Il mio prozio Alfredo, drammaturgo, poeta e capocomico bolognese, amico di Trilussa e D’Annunzio, scrisse per il teatro tra la fine dell’800 e i primi del 900 in dialetto e in italiano, la sua commedia più famosa, “il cardinale Lambertini”, trasposta anche cinematograficamente dal grande attore Gino Cervi, è il simbolo del carattere e di pregi-difetti dei bolognesi e tocca corde ancora attuali nella vita di quella città e non solo...Bologna gli ha intitolato una strada e un teatro. Mio padre e io abbiamo forse ereditato la parte creativa del nostro essere da lui.


    L’esordio come compositore nel 1978 al “MusicWorkshop UNESCO” di Copenhagen appena ventenne, Lei è stato uno dei fondatori del movimento Neoromantico musicale italiano. Una sorta di ritorno al passato, come punto di riferimento, per un nuovo stile compositivo?                                                                                                                                                        Alla fine degli anni settanta, appena ventenne, dopo aver concluso gli studi classici, entrai in Conservatorio e cominciai a studiare la musica elettronica, allora di gran moda. Poi con Castiglioni iniziai lo studio della Composizione, Armonia e Contrappunto, con particolare riferimento al Madrigale cinquecentesco. L’incontro in conservatorio con altri miei coetanei apprendisti compositori fece scattare la scintilla creativa in una direzione diversa e contrapposta a quella dei nostri cosiddetti maestri. L’atmosfera allora che circondava la musica contemporanea era pesante, fatta di dogmatismi e di regole linguistiche che io e gli altri giovani ribelli trovavamo assurde, inconcludenti, tutte al servizio di un conseguimento di risultati inefficaci all’ascolto. Insomma ci dava tremendamente fastidio sentire musica così brutta perché scritta male ma così politicamente appoggiata e brutalmente imposta nelle sale da concerto da uno stuolo di super-maestri talebani, calvinisti, sordi a qualsiasi riferimento alla grande recente e ancora perfettamente viva tradizione del novecento, incarnata dagli amatissimi Maestri come Stravinsky, Prokoviev, Sostakovich, Ravel, Debussy, il nostro melodramma, Puccini e Respighi, eccetera. Perché rifiutare i risultati meravigliosi di questi modelli straordinari? in nome di una ricerca senza fine di qualcosa di nuovo a tutti i costi, di mai udito, di una musica senza memoria? Intanto il pubblico cominciava giustamente a staccarsi da questa avanguardia sorda e cieca e noi prendemmo il coraggio e cominciammo, ancora studenti, a scrivere un’altra musica contemporanea. Così è nato quel movimento, che tra alti e bassi è durato un decennio e ha sicuramente cambiato una parte consistente della musica contemporanea italiana e forse anche mondiale. Che io sappia, solo negli USA ci fu un movimento simile, cominciato poco prima, di grandi autori ancora oggi in attività, che la critica definiva appunto neoromantici...fu da loro che la nostra critica affibbiò anche a noi questo nome, purtroppo connotandolo negativamente, in senso passatista e conservatore. Invece la vera rivoluzione era la nostra ma la critica militante musicale era allora legata mani e piedi a quella corte di autori, editori, direttori artistici militanti per la stessa folle battaglia distruttiva verso la tradizione moderna. Giancarlo Menotti e Vieri Tosatti furono le prime vittime della stessa generazione dei loro boia, colpevoli di saper scrivere bella musica, comunicativa, piacevole, espressiva, colpevoli di piacere al pubblico. Noi più giovani dovevamo guardare indietro per andare avanti nel modo giusto, non volevamo conservare ma tramandare, essere parte attiva di quella memoria musicale moderna che amavamo e volevamo emulare e fare nostra. Questa era vera rivoluzione antiaccademica, la vera accademia era il rigor mortis dei linguaggi atonali delle avanguardie post Darmstadt, la loro violentissima arroganza di mediocri artisti senza altre idee che i diktat e i tabù del ”così non si fa più”.


    Nel 1981 l’esordio alla Biennale di Venezia con grandi riconoscimenti di pubblico e di critica, sancisce “l’inizio” della sua carriera. Molte le commissioni in Italia e all’estero. Mi pare di capire che il periodo “d’oro”, per i giovani compositori, sia stato tra gli anni 80 e 90. I giovani compositori trovano spazio oggi per le loro composizioni?

Negli anni Ottanta e Novanta in Italia esistevano per i giovani autori molte possibilità di ascoltare esecuzioni delle proprie musiche, esistevano orchestre sinfoniche, pensiamo a quelle Rai, moltissimi festivals che puntualmente commissionavano e registravano contribuendo alla diffusione di nomi e titoli. Io stesso ancora studente scrissi il mio primo brano per violino e orchestra per la defunta orchestra dell’Angelicum e l’anno seguente ricevetti da Giorgio Vidusso la commissione per la Prima Sinfonia con l’orchestra Rai di Milano. Oggi è tutto più difficile per i giovani ma anche per la mia generazione, scomparse molte orchestre, risorse economiche irrisorie concesse dallo Stato per la musica, festival tutti votati al repertorio, insomma un disastro e un deserto. Il rimedio francamente non riesco a immaginarlo ma le cause sono tante e tutte hanno una buona percentuale di colpa per questo stato di cose. Ci sono pochi autori, che definirei di regime, autorizzati a spartirsi il poco che resta e qualche piccolo spazio per tutti gli altri, giovani e meno giovani. Molta confusione, poca programmazione, paura di osare, unita a scarsa competenza dei nuovi “padroni” delle istituzioni, pilotati da interessi più o meno oscuri, nella sostanziale indifferenza del pubblico che ha da tempo rinunciato ad avere fiducia per la musica nuova, sentendosi troppo spesso tradito da anni di pessima musica, noiosa e inascoltabile. Gli interpreti, anche loro, cercano di salvare il salvabile e scappano dalla novità rifugiandosi nella sicurezza del “museo”, così hanno qualche possibilità di continuare a lavorare. La buona borghesia, quella dei salotti chic dove si pronunciano sentenze e processano intenzioni e tendenze, dove si celebrano nuovi eroi della cultura con l’avallo e il crisma del potere anche economico e lobbistico dei nuovi censori, si è sostituita al potere politico o meglio si è affiancata da tempo agli uomini di quel potere che occupano ancora e comunque i posti di comando nelle istituzioni musicali, lottizzando e parcellizzando, ciascuno nella propria zona di controllo e decidendo chi e cosa programmare e per quale opportunità concedere uno spazio o negarlo. Un autore, se vuole visibilità, deve cercare di essere nel posto giusto al momento giusto, deve possedere il dono di sapere con chi e come e quando essere alleato, sperando così di far parte del gioco, un piccolo gioco peraltro, ma pur sempre il gioco senza il quale non si hanno commissioni e esecuzioni. Molta ipocrisia, tonnellate di ipocrisia e piaggeria, viltà e falsità, maldicenza...insomma l’eterno repertorio umano per la sopravvivenza nella jungla crudele e frigida del mondo dello spettacolo e della cultura. Naturalmente ci sono delle eccezioni alla regola e allo squallore scontato di questo meccanismo.

    Molti i generi musicali da Lei trattati. Si è occupato di opera, balletto, teatro, musica da camera, trascrizioni. L’opera “Alice” scritta tra il 1986 e il 1983, in tre atti, è stata rappresentata in prima assoluta al Teatro Massimo di Palermo nel 1993. Com’è nata questa idea e perché la scelta di un personaggio così “immerso” nel sogno?                                                                   

Il teatro musicale ha avuto una grande influenza sulla mia passione per la musica in generale cominciando dal balletto però. Mia madre, che aveva studiato e danzato alla Scala, mi parlava fin da piccolo della danza e della bellissima musica per la danza, Caikovsky ma anche quei minori autori “artigiani” che mi attraevano con le loro seducenti facili melodie. Il palcoscenico, le punte, il tutù, poi Diaghilev e la mitologia dei Ballets Russes, Stravinsky! Stranamente solo negli ultimi dieci anni ho finalmente cominciato a scrivere molta musica per la danza. A mia madre devo anche la passione per l’opera, la sentivo spesso canticchiare arie di Puccini che sapeva a memoria e comunque in casa mia la musica, anche per il lavoro di mio padre, risuonava continuamente, tutta la musica, le canzonette e il jazz, l’opera e la musica sinfonica...mio padre aveva una collezione di migliaia di dischi. Verdi e Puccini, studiati e amati nella classe di Flavio Testi, ascoltati nelle grandi interpretazioni scaligere di quegli anni e poi le scoperte novecentesche fino a Janáček e Britten, passando per Strauss, più tardi il lento inesorabile avvicinamento a Wagner, tutta questa tradizione attraverso la parola scenica, il canto, mi sembravano la vetta massima che ogni compositore poteva ambire di raggiungere. Alcuni miei colleghi già si cimentavano con l’opera, genere che più di tutti l’avanguardia seriale disprezzava e ignorava come vecchiume; era logico che il nostro movimento di opposizione tenesse il teatro musicale come primo oggetto del desiderio, veicolo ideale per rispondere coerentemente al dogma della rivoluzione permanente, perché giustamente autori italiani, diretti discendenti di un passato così unico. Con la mia ALICE, contribuii con uno sforzo immane (tre atti, orchestra enorme, 12 cantanti e una durata di quasi tre ore) al progetto Opera che ci legava quasi tutti. Sicuramente questo genere, legato al canto e alla scrittura melodica, è stato un perno fondamentale del movimento neoromantico e lo è tuttora. ALICE è il risultato di un tentativo, a mio parere quasi del tutto riuscito, di coniugare la necessità della cantabilità del testo nel senso più tradizionalmente melodico, italiano, con un accompagnamento o commento sinfonico molto colorato e complesso, denso di contrappunto e animato da sempre mutevoli impulsi ritmici. La chimera di coniugare la musica vocale e quella strumentale in un unico corpo pulsante, avvincente, emotivamente sempre vivo e narrante, che con Wagner trova la sua prima incarnazione, mi affascinava e stimolava già ancora studente di conservatorio. Impresa difficilissima e rischiosissima, soprattutto per un compositore italiano. Il modello di Korngold, almeno nella meravigliosa Die Tote Stadt, mi ha dato un incoraggiamento in più, dopo lo studio approfondito delle opere di Richard Strauss. Il soggetto di ALICE era perfetto per me allora in quanto radicalmente antiverista e al contrario ricco di stratificazioni di senso e interpretazioni possibili attraverso le figure irreali dei suoi personaggi. Una strada aperta a ogni possibilità di ricostruzione del senso teatrale passando dal mezzo potente della fiaba che ricopre e trasfigura con la sua leggerezza le sfumature e gli abissi psicologici dei suoi eroi: con il librettista Bramati scegliemmo una visione addirittura tragica, trasformando la giovane fanciulla e i suoi sogni nello sguardo dell’Artista che immerso nella durezza della realtà e dei suoi rapporti di forza, comprende quanto sia grande la distanza tra la visone creativa della vita e la verità della stessa, quanto le persone sono spesso vittime e carnefici in un gioco di ruoli che abbassa il tono della poesia in un limbo, o meglio inferno, di mediocrità e inespressività. Alice scopre la crudeltà dei comportamenti umani, non ne comprende il motivo, esprime il suo disagio ma vuole difendere il diritto a esistere o coesistere con questa realtà, vuole affermare la possibilità che l’Arte sia mezzo per fare la vera rivoluzione possibile per gli esseri umani attraverso la Bellezza, l’etica della Bellezza, la redenzione forse anche dal male di esistere attraverso l’immaginazione. Alice fa questo attraverso il Canto, attraverso la sua fede nel Canto, Alice è per me il simbolo della Musica, del Suono, lo fa affermando il diritto all’Ingenuità dell’infanzia, crocevia dello spirito e del corpo, professa la necessità di un’Arte profondamente umana, in equilibrio tra istinto e ragione, tra logica e follia, nella libertà da ogni finzione e costrizione.


    Nel 1983 la RAI Le commissiona la “Prima Sinfonia”, nel 1984 il “Notturno”, le “Variations”, l’orchestrazione del ciclo pianistico “Come passo l’estate” di Niccolò Castiglioni. Vengono ancora commissionati dei lavori al giorno d’oggi?            

Come ho già detto prima, per la maggioranza degli autori le commissioni pubbliche sono scarse e molto difficili da ottenere, per alcuni altri invece sono più facili e scontate. I rapporti con i miei colleghi sono in verità poco frequenti ma ciascuno potrebbe descrivere situazioni molto diverse e non ci sono più certezze o regole infallibili da seguire per avere lavoro. Tutto è così precario e caotico, i rapporti personali sono diventati decisivi ma per ottenerli ci sono innumerevoli strade da percorrere e cose da sapere, un vero lavoro...ma quanto tempo può dedicare a questo lavoro un artista? Quanto tempo può sacrificare alla qualità dei propri contenuti andando ai concerti, alle cene, ai ricevimenti, nei salotti che contano? E spesso è complicato sapere dove e da chi e quando esserci...certo non ti invitano perché sei un grande artista, la ”cosa” in sé, l’opera d’arte, ammesso che a qualcuno interessi, non è il punto di partenza per ricevere aiuti o protezioni. Una visione pessimistica la mia certamente ma non credo sia distante dalla verità dei fatti, io forse ho il coraggio di dire quello che molti se non tutti pensano ma prudentemente tengono per sé. Mi hanno sempre “accusato” di dire quello che penso, di non essere mai stato...”sfumato”. Io credo nella forza delle idee e nella ricerca di una Bellezza espressiva senza compromessi, voglio sentirmi rivoluzionario in questo, non amo nascondermi dietro le convenzioni e i riti comportamentali, e pago il prezzo spesso per questo.  Lo Stato dovrebbe ricominciare a credere nella possibilità che la cultura produce anche profitto, la musica anche danaro, almeno in una forma di benessere e crescita che può alla lunga generare nuove situazioni economicamente utili all’intera società. Commissionare arte, se i privati o mecenati sono del tutto assenti, deve essere un dovere di ogni Stato democratico degno di questo nome.

    

    Le trascrizioni hanno riguardato Franz Liszt “L’albero di Natale”, suite per Orchestra, Robert Schumann, “Carnaval”, per orchestra. Non sono così frequenti le opere di trascrizione e di orchestrazione, come mai questo lavoro?                                   

Ho sempre pensato che fosse normale per un compositore, e normale lo era per i compositori nel passato, rielaborare, orchestrare e variare le musiche degli altri autori. Stravinsky parla di necessità di amare e non di rispettare la musica degli altri autori e io sono perfettamente in sintonia con questo pensiero. Quando alla fine degli anni novanta mi chiesero di orchestrare Carnaval accettai con gioia non solo perché Schumann è uno dei miei autori più amati ma perché ho una grande passione per l’arte dell’orchestrazione e dei suoi segreti. Nel farlo naturalmente ho messo la mia vita e il mio suono, la mia concezione del timbro di uomo del novecento, in sovrapposizione, non in opposizione, al suono e timbro di Schumann, autore del pieno romanticismo ottocentesco. In alcun modo violentare la sua musica ma rendere omaggio al suo pensiero affiancandogli il mio con puro sentimento di partecipazione e cercando di aggiungere qualcosa di “moderno” alla sua verità che, come per tutti i veri grandi artisti, è fuori dal tempo e dalle sue mode. Con Liszt ho fatto qualcosa di analogo ma è stato più semplice perché quella suite è di una modernità straordinaria, enigmatica, si sente già tutto l’impressionismo e oltre...orchestrale era solo fare quello che già era presente nel testo per pianoforte, nel fraseggio e nella conduzione armonica e narrativa, decisamente visionaria e fuori dai confini temporali. Ancora studente orchestrai anche una piccola suite pianistica del mio caro maestro Niccolç Castiglioni che ebbe molte esecuzioni e ricordo con soddisfazioni fu approvata senza riserve dallo stesso che mi disse che non avrebbe saputo fare di meglio! La pratica di elaborare la musica degli autori che si ama è una delle attività più gratificanti per un compositore, una palestra tecnica ma anche un modo per sentirsi in simbiosi e in completo abbandono all’arte che ci fa vibrare l’anima e affratella con i nostri beniamini tanto studiati e ascoltati. Tutti gli aspiranti compositori dovrebbero praticare questa attività, che peraltro dovrebbe ancora essere assorbita negli studi accademici in conservatorio ma che è relegata all’ultimo anno di studi di composizione purtroppo. Spero di avere ancora qualche opportunità di mettere mano a musiche amate per orchestrarle, ce ne sono moltissime che amerei...Testonizzare!


    La musica da camera occupa un capitolo importante nella sua produzione musicale. Molti gli strumenti a fiato presenti nei suoi lavori, c’è una particolare predilezione?                                                                                                                        

Anche se la musica da camera in Italia ha poco spazio ed è molto concentrata sul grande repertorio sette-ottocentesco, da una decina d’anni l’ho coltivata con grande passione e nel tentativo di trasferire nelle forme cameristiche classiche quel mio suono molto ricco timbricamente che è un poco il segno facilmente riconoscibile in tutta la mia musica. Fare questo lavoro di integrazione di molteplici sfumature con pochi strumenti a disposizione è una sfida psicoacustica e emotiva molto interessante e ricca di variabili e di possibili imprevedibili risultati. Bisogna concentrare al massimo e mantenere chiarezza nel racconto con molti meno mezzi e colori a disposizione, esperienza meravigliosa! Ho imparato e imparo moltissimo sul mio linguaggio e sulle mie idee sonore attraverso questa pratica anche se non penso necessariamente a degli interpreti di riferimento tranne nei brani recentissimi per ottoni e pianoforte, scritti per solisti giapponesi coinvolti in un progetto anche discografico. Non avevo mai scritto musica per corno o tromba e pianoforte, il loro repertorio è molto limitato e spesso confinato a brani scritti da strumentisti o da trascrizioni da altri strumenti. Ho accettato con grande entusiasmo perché sono curioso e amo le cose difficili, mi piace tentare strade nuove e accetto più facilmente di percorrere sentieri impervi per la mia natura di combattente. Credo siano musiche molto interessanti e ricche di fascino e non vedo l’ora di ascoltarle. Attualmente sto scrivendo 24 Preludi per pianoforte e questo strumento resta tra i miei preferiti insieme agli archi, la viola in particolare, cui ho dedicato due anni fa una Sonata. Presto affronterò il mio primo Quartetto per archi, l’età me lo permette!


    Per il 2016 ha in programma di scrivere nuove composizioni? Pubblicazioni video e cd?                                            

Quest’anno devo assolutamente terminare il secondo atto della mia nuova opera Leonce e Lena, seconda commedia di G. Buchner, il poeta tedesco del primo ottocento autore della famosa commedia Woyzeck (che Berg trasformò in Wozzeck). Molti anni orsono, poco prima di cominciare a scrivere la mia ALICE, mi interessai molto alle opere di G. Buchner, in particolare a Leonce e Lena. La fiaba mescolata alla feroce critica verso le certezze sociali, la malinconica introspezione e il gusto per il paradosso, il gioco dello scambio di ruoli, l’asciuttezza del linguaggio, la teatralità trasfigurata dall’estasi della parola poetica, tutto questo mi attirava e mi influenzava nella scelta della commedia di Buchner per adattarla a libretto per musica. Queste sono alcune motivazioni che mi spingono a mettere in scena e far cantare personaggi, che sono profondamente reali proprio perché “maschere”, archetipi. La lezione di Shakespeare rimane un faro di perenne ispirazione. Abbandonai in quegli anni l’idea perché non adatta ad un’opera di grandi proporzioni ma l’ho ritrovata e rivisitata dopo tanto tempo perché ho pensato a una nuova scrittura di teatro musicale da camera, con un organico strumentale ridotto e un ridotto numero di voci, più adatta ed efficace, oggi, alle esigenze di messa in scena dei nostri teatri. Per la prima volta ho affrontato la scrittura del libretto, adattando il testo originale (nella sua traduzione italiana) ai miei “ritmi” e al mio fraseggio melodico, non trovando difficoltà particolari ma con grande slancio e facilità; ho utilizzato una versificazione piuttosto libera ma sempre ascoltando il mio istinto prosodico tutto finalizzato all’ efficacia e comprensibilità del suono e del significato della parola. Ci sono come sempre tanti altri progetti cameristici, una Terza Sinfonia e un Concerto per pianoforte e orchestra, può anche darsi che il balletto mi conceda ancora una possibilità di scrittura dopo l’ultima fatica del 2015 “Combustioni” scritta per la coreografia di Emanuela Tagliavia, commissionata per la ricostruzione del rinato Teatro Continuo di Burri al Parco Sempione di Milano nell’ambito dell’Expo.


    Una domanda che vorrebbe Le venisse posta alla quale nessuno ha mai pensato?

Tra le tante possibili forse la più ingenua o apparentemente banale...perché scrivo musica? Potrei sinteticamente dire che è l’unica cosa che credo di saper fare oppure perché devo lasciar andare fuori da me tutti i suoni che mi stanno nella testa e nel cuore...oppure perché è il miglior modo per farmi amare dagli altri uomini e essere realmente sincero. Da giovane avrei azzardato che volevo fare la rivoluzione con la musica e l’arte...oggi più saggiamente mi limito a cercare la condivisione con la mia idea di Bellezza etica, sperando che a qualcuno interessi e che ne tragga un qualche umano beneficio.


INTERVISTA per una tesi di Laurea di Canto Lirico di Daniela Donaggio (2012/13)


1.     Che cosa rappresenta per lei il Novecento musicale?

    "Il Novecento musicale, naturalmente comprendendo i grandi autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, era per me giovane esordiente compositore, il concentrato di tutto ciò che amavo della musica “classica”, attraverso le biografie oltreché le opere degli autori. Il compositore rappresentava ciò che volevo e sentivo di essere. Naturalmente dopo un approccio di vorace curiosità adolescenziale per tutto ciò che era accaduto e accadeva nell’ambito della musica novecentesca, con l’inizio degli studi in Conservatorio, il confronto dei modelli possibili mi orientò naturalmente verso quegli autori che tenevano salde le radici nella grande tradizione tonale ma elaboravano virtuosisticamente una personale reinvenzione di quel linguaggio fino alle estreme conseguenze ma dentro un chiaro recinto espressivo e narrativo."


2.     Lei è uno dei fondatori del movimento Neoromantico, quanto è stato arduo esordire in un mondo dominato dalle avanguardie?

    "Mi sono sempre opposto al postmodernismo come pastiche che prefigurava un appiattimento dei significati e delle diversità in nome di una ricostruzione a freddo delle cose artistiche, private della loro unicità e della memoria, un mostro su un tavolo obitoriale in cui i pezzi diversi di corpi diversi si potevano rammendare anche casualmente in modo oggettivo, senza una direzione espressiva chiara, un puzzle nutrito da una ambiguità che diveniva il vero significato e valore; l’eclettismo stilistico mi spaventava prima ancora che infastidiva, la patente di artisticità era a portata di mano per chiunque si atteggiasse spregiudicatamente come abile assemblatore di oggetti incoerenti. Sotto questa parola ambigua, necessariamente ambigua, ho trovato per lo più cose poco interessanti, mediocri tentativi di riciclo seriale di forme in sé bellissime e ridotte a semplici icone senza vita. Un vero preludio alla globalizzazione. Le mie idee sull’arte e la musica erano in aperto dissenso su questa operazione a freddo, ero molto contrario all’idea che i generi musicali dovessero mescolarsi, e lo sono tuttora, ogni cosa doveva mantenere la sua autenticità e il suo ambito espressivo. La contaminazione per esempio con la musica pop, allora tanto di moda, non mi attraeva affatto, mi sembrava anzi ridicola nei risultati, perdente rispetto agli originali. Ho pensato che il nostro movimento dovesse in realtà cercare una omogeneità stilistica attraverso la continuità con il passato abiurato dalla cultura ufficiale ma mi accorsi a un certo punto di essere isolato in questa idea, come un custode del Graal che nessuno cerca più e che se anche lo vedesse non saprebbe riconoscere. Continuo a detestare questa idea banale di postmoderno dove tutto è uguale a tutto.

La mia sensazione di libertà di pensiero musicale era in quegli anni continuamente messo alla prova dal contatto ostile e sospettoso del salotto buono della cultura ufficiale, irrigidito da protocolli tanto particolareggiati tanto oscuri. Ero libero di creare musica diversa ma sapendo che non avrei trovato un terreno fertile e ricettivo, dovevo strategicamente essere inattaccabile sul piano tecnico perlomeno, per rendere più difficile la critica sul piano artigianale, una libertà faticosa, ma forse la libertà di espressione chiede sempre un prezzo da pagare. In compenso a soli ventitré anni ero già edito da Ricordi e questa ufficialità mi suonava come palese riconoscimento del mio talento naturale; trovare subito dei compagni di strada mi ha aiutato enormemente, nel confronto e nella emulazione la mia idea di libertà ha trovato presto la sua espressione."


3.     Quali sono le sue opinioni rispetto alle avanguardie?

    "La musica italiana del mio secolo mi appariva ricca di segnali eterogenei stilisticamente, a volte contrapposti e in questo senso per un musicista  ventenne, la cultura ufficiale, i libri di storia della musica, non aiutavano a distinguere, conoscere, scegliere con dati certi e valutazioni obiettive. Quel poco che si riusciva ad ascoltare però degli autori italiani tra le due guerre, Ghedini, Malipiero, Casella e tanti altri fino a Menotti, e parlo di Milano, ogni volta mi lasciava pieno di curiosità insaziata, mi sembrava che sotto la superficie delle rare esecuzioni si nascondessero altre pietre preziose seppellite da incomprensibili censure e apodittici giudizi severi, complice lo spettro orrendo di un conflitto le cui macerie ricoprivano ancora la società e la cultura. La presa di potere delle avanguardie nel primo dopoguerra dava poi un colpo di grazia ad almeno due generazioni di musicisti travolgendo il buono e il cattivo indistintamente. Questo lo si capiva bene, bastava accennarne tra colleghi studenti e musicisti, gli slogan negativi erano abusati e certi nomi erano impronunciabili, si faticava non poco a trovare testimonianze musicologiche prive di astio polemico e veleni ideologici. Penso sia stato un vero dramma che ha lasciato sul campo vittime inutili ancorché di grande importanza e valore.

L’insegnamento di libertà e di curiosità di Castiglioni, nella cui classe portavamo le partiture di autori diversissimi e in gran parte dei grandi autori novecenteschi, ci indirizzava tutti verso una visione panoramica del linguaggio musicale; per me in particolare l’antipatia viscerale verso la dodecafonia e la noia abissale che le esecuzioni dei profeti dell’avanguardia mi provocava in ogni occasione, furono la chiave per giungere a un naturale, biologico rifiuto di qualsiasi metodo astratto legato al comporre. Naturalmente nelle giornate passate in biblioteca a decifrare e fotocopiare le partiture anche di Boulez, Berio, Nono, Stockhausen e le ore al pianoforte tentando di ricostruire la logica del loro discorso, mi ritrovavo a pensare che quelle belle partiture alla fine di ogni mio sforzo non mi attraevano affatto, non riuscivano a oltrepassare il limite per me invalicabile di oggetti alieni di pura scrittura, vanificando i miei sforzi di studente desideroso di capire e far parte di quel nuovo mondo. Un pò di frustrazione all’inizio, presto compensata dalla scoperta che non ero il solo ad avere queste reazioni allergiche."


4.     Dalla Transavanguardia  degli anni Settanta al Neoromanticismo degli anni Ottanta. Qual'é stato l'elemento più importante della scommessa neoromantica?

    "Una delle cose straordinarie del periodo, a proposito del genius loci, fu la convergenza poco più che casuale di arti diverse verso un nuovo centro, un pensiero che superasse il conflitto “sociale” delle avanguardie postbelliche isolate nel loro ghetto di intellettuali senza seguito popolare. Ero molto interessato a tutto quello che si muoveva in questa nuova inattesa direzione e amando la pittura e la poesia ero in prima linea su questo doppio fonte. Miei amici pittori e poeti, alcuni dei quali protagonisti di queste correnti di “liberazione”, erano al centro dei miei interessi almeno quanto i miei colleghi compositori. Il libro di Jean Clair "Critica della modernità" uscito nel 1983, fu di fondamentale importanza per me. Non mi pare di averne mai condiviso l'influenza con i miei compagni di allora perché non ricordo ci fosse in loro un interesse per la pittura contemporanea. Le idee di Clair mi diedero coraggio e stimoli, tutto quello che nel nostro mondo musicale stentava a emergere, un mondo veramente “lento” e conformista, nelle arti figurative si stava improvvisamente muovendo con grande velocità. La Transavanguardia era l'equivalente in quel momento del nostro neoromanticismo ma loro avevano l'appoggio di Bonito Oliva e soprattutto agivano con il supporto quasi immediato del collezionismo, dei galleristi e delle istituzioni museali pronte a cogliere l'attimo propizio e sfruttarlo. In quel movimento vedevo la vera reazione all'arte concettuale attraverso il ritorno alla pittura, al disegno, al colore, alla tecnica, alla forma. Avevo bisogno di trovare conferme alle mie intuizioni e aspirazioni, lì riuscivo a vederne dei frutti molto importanti. Ho amato molto il primo periodo dei pittori della Transavanguardia, Chia e Cucchi soprattutto mentre per la poesia il mio contatto diretto e l’amicizia con Bramati, Pontiggia e poi con Giuseppe Conte mi ha aiutato a trovare altro materiale fertile per me. Il gruppo di poeti raccolti attorno alla rivista Niebo e poi alla pubblicazione “la Parola Innamorata” si configurava come la più interessante reazione allo strutturalismo razionalista del Gruppo 63. Mi sembrava che queste convergenze fossero un segnale chiaro che ci fosse un sentimento comune, un sotterraneo flusso di idee convergenti e condivisibili. Mi sentivo al centro di una rivoluzione spirituale che desideravo con tutte le mie forze si avverasse, una rivoluzione verso la bellezza. In parte è stato così.

La quasi involontaria nascita del piccolo gruppo di autori poi chiamati neoromantici nel 1980 creava una base abbastanza solida al nostro lavoro, solida perché solidale nel vagheggiare una musica simile a quella che amavamo anzitutto, in secondo luogo perché formata da elementi molto diversi sul piano umano e artistico, una diversità tangibile ma in espansione rapidissima, fortemente coesa da gusti e affinità ma ricchissima di sfaccettature e varianti; in qualche modo mi sembrava si riproducesse quella meravigliosa stagione dell’inizio secolo dove fermento giovanile e desiderio di essere protagonisti insieme di un’unica grande storia sembravano a portata di mano. Alcuni ci credevano forse più di altri ma queste erano sottigliezze.

Nei nostri incontri spesso molto divertenti e altre volte vicini allo psicodramma, ci si confrontava su tutto, la musica naturalmente prima di tutto, per alcuni la “strategia” era magari più importante ma i ruoli si definivano di volta in volta come in una commedia work in progress dove gli attori cambiano ruolo a seconda delle circostanze. Nelle nostre discussioni, che erano anzitutto tra amici, gli argomenti erano quasi sempre vicini alle cose dell’arte, non ricordo che la politica, se non appunto mediata da argomentazioni di strategie d’azione, facesse parte del nostro pensiero comune. Tra alcuni di noi c’era sicuramente una vera amicizia e anche un reale legame di affetto e stima e questo ci trasportava in un territorio emozionante, si rifletteva poi nel lavoro personale in qualche modo, era evidente e le reciproche influenze si rivelavano nel giro di poche settimane, ad ogni nuovo brano composto. Per un breve periodo mi sono sentito un compositore fatto da tanti compositori, in un divenire costante, millimetrico e vorticoso."


5.     Il Neoromanticismo italiano si può individuare quale espressione tipicamente italiana del pensiero musicale postmoderno? Vi è qualche analogia con il movimento tedesco "Neue Einfachkeit"?

    "Sgombrando il campo dalla definizione di postmoderno applicata al movimento neoromantico, posso dire oggi che anche se non pensavo in termini di espressione di un genius loci vero e proprio, mi pare che la sua unicità storica e territoriale sia un fatto reale e azzarderei che solo in Italia poteva nascere questa reazione al razionalismo estremo, un razionalismo “luterano”, nordico, severo, molto distante dalla sensibilità mediterranea. La Nuova Semplicità dei colleghi tedeschi mi sembrava fumosa, una rifrittura più consonante dell’espressionismo condito con abbellimenti posticci, una parrucca rossa su un cadavere in putrefazione, tanto rumore per nulla ancora una volta. Non sapendo bene cosa volessero semplificare e come i contati praticamente non ci furono e neppure un vero scambio. Certo l’informazione sul loro lavoro era scarsa e depistata, Rihm e Trojan erano i nomi più noti ma poca musica filtrava. Era paradossale se non tragico però vedere i musicologi militanti italiani pronti a interessarsi di loro e al contempo altrettanto pronti a stroncare le nostre opere. Nessuna eredità positiva mi sembra che questi autori abbiano lasciato al contrario del neoromanticismo italiano; la mancanza di gusto e stile dell’arte tedesca dal dopoguerra a oggi mi pare incontestabile, dalle arti visive alle regie d’opera, i compositori più à la page attuali sono quanto di peggio si può ascoltare in Europa e nel mondo globalizzato.”


6.     Quali sono stati gli eventi musicali propulsori della "causa" neoromantica, del ritorno alla musica tonale.

"Il problema non era e non è ritornare verso qualcosa e dunque verso la musica tonale, la musica cosiddetta tonale è un patrimonio storico stratificato da almeno cinque secoli di evoluzione del linguaggio musicale occidentale, patrimonio culturale fortemente radicato nella psicoacustica e nella comune sensibilità di generazioni e generazioni di autori e interpreti nonchè nell’organologia, nel come sono costruiti gli strumenti della nostra musica occidentale da secoli. Dalla fine dell’ottocento il concetto di tonalità e le gerarchie con cui è costruito quel linguaggio si sono enormemente evolute, trasformate e ampliate intersecando esperienze diverse e un nuovo ”sentimento” percettivo, un nuovo gusto straordinariamente più aperto a ricevere informazioni sonore complesse e ricche di sfumature, come è avvenuto per tutte le altre arti e forme espressive. Questo è fisiologico e naturale. Quello che non è naturale è inventare da zero un linguaggio artistico che usa vocaboli il cui significato è conosciuto solo dagli stessi inventori e resta in sostanza non comunicabile ad altri se non attraverso una simbologia fittizia, precaria, opinabile e del tutto ambigua. Un linguaggio musicale del tutto privo di narrazione, di logica del senso comunicativo, di contrasti e simmetrie, in definitiva tendente all’impersonale, al “seriale” ovvero replicabile all’infinito anche se apparentemente variato nell’ordine dei suoi componenti, disumanizzato negli aspetti dell’emozione perchè uniformemente tendente a un unico livello interpretativo astratto, molto spesso generatore di un vago senso di generica “angoscia” o tensione ma senza motivazione e significato...questa è in molti casi la concreta realizzazione della musica post bellica che faceva riferimento ai corsi di Darmstadt, centro di una rivoluzione oligarchica potremmo dire, una privata e apodittica rivoluzione che voleva fare tabula rasa di ogni idea di tradizione e memoria artistica, concetti ritenuti superati dagli eventi tragici di una storia umana che doveva abolire il sentimento privato in nome di una ragione collettiva e così via. Con questo scenario di desertificazione espressiva noi ci siamo trovati alla fine degli anni settanta a fare i conti, con questa violenza radicale che aveva distrutto il rapporto naturale di fiducia tra chi crea e chi consuma arte. Dovevamo in qualunque modo ribellarci, paradossalmente la nostra ribellione doveva ristabilire un ordine e abbattere un disordine. Una controrivoluzione in apparenza ma in realtà una vera battaglia per la salvezza della memoria e del passaggio dei significati tra artisti e arti interrotta da pochi “falsari.”


7.     Ritiene che la musica d’avanguardia abbia allontanato il pubblico dai teatri?

    “Come ho accennato, una distorsione così profonda dei concetti di bellezza, espressività, narratività unita all’abolizione della singolarità artistica immersa nel grande fiume della memoria secolare, non poteva che generare, dopo una prima liberatoria e sana curiosità, noia e poi sfiducia. I cambiamenti sociali, economici e di costume hanno favorito la nascita di un’arte musicale di consumo che ha riempito il vuoto di senso lasciato dalla musica d’ arte e dalla cultura ufficiale, lontana anni luce da ogni idea di progresso emotivo interiore ma solo concentrata sullo spasmodico progresso del linguaggio in astratto. I paladini del nuovo per il nuovo hanno creato il vuoto attorno alla musica classica moderna tradendo poco per volta ogni ragionevole tentativo di assimilazione e comprensione da parte di un pubblico potenzialmente ancora vasto e eterogeneo. Si è creato un pubblico di nicchia, specializzato, iperstrutturato e connivente ma nell’assenza di un vero palpabile consenso, di universalità e condivisione dei contenuti. Questo non era mai avvenuto prima d’ora, una frattura così profonda e dolorosa che ancora appare difficile da ricomporre.”


8.     Il musicologo Franco Pulcini definisce la sua musica quale “ linguaggio unitario nato dalla fusione di diversi modelli che lavorano in sovrapposizione”. Quali sono stati i suoi modelli musicali? (Wagner, Strauss e Korngold)?

    "I miei Maestri reali sono stati Angelo Paccagnini, col quale oltre alla musica elettronica nel suo pionieristico corso al Conservatorio di Milano cominciai privatamente a studiare la tecnica orchestrale e scrivere le mie prime vere composizioni strumentali, Niccolò Castiglioni col quale mi diplomai in Composizione e Flavio Testi, nel cui corso superiore di Storia della Musica potei approfondire e analizzare il repertorio operistico dall’ultimo Verdi fino a Wozzeck, cosa che era quasi impossibile fare allora nei corsi di composizione ufficiali. I maestri virtuali e ideali sono stati tanti, da Mahler a Strauss, da Stravinsky a Britten, da Debussy a Ravel, da Prokoviev a Sostakovich, Janáček, Korngold, Schreker, Messiaen... anche se il mio modello era Robert Schumann, poeta della fragilità e del languore sensuale. Qualche anno dopo il diploma cominciai timidamente ad affrontare lo studio di Wagner che poco per volta mi ha soggiogato nel suo vortice spazio-temporale così potente e sensuale.

I compositori italiani che mi attiravano erano naturalmente i più vicini alle poetiche di rinnovamento della nostra tradizione musicale a cominciare da Puccini che consideravo moderno non meno di Ravel o Stravinsky, lo percepivo come un grande protagonista alla pari con i compositori russi, francesi e tedeschi; lo stesso sentimento di empatia provai per Respighi che mi affascinò per la bellezza debordante del suo magistero orchestrale derivato dalla musica coloratissima dei russi; gli altri compositori della generazione dell’ottanta li conoscevo meno perché su di loro era calata da tempo una sorta di velo, un oblìo accompagnato da pesanti censure ideologiche (le scoprii più tardi) che rendevano rare le esecuzioni in concerto. Il verismo musicale mi sembrava invece molto distante dal mio modo di sentire (ero troppo giovane...), museale, di un gusto stantio e volgare soprattutto nella drammaturgia; Verdi mi appariva modernissimo al confronto, anche per le sue mature scelte dei testi della grande letteratura e le meraviglie strumentali e armoniche di Don Carlo, Otello e Falstaff, per non parlare del suo incredibile quartetto per archi o la potenza espressiva del Requiem; mi sembravano questi dei punti di partenza più che di arrivo, dei modelli di perfezione assoluta da studiare e emulare, porte che aprivano altre porte sul futuro. Tutte cose che penso ancora oggi naturalmente."


9.     Il suo maestro di composizione è stato Niccolò Castiglioni, al quale lei ha dedicato in memoria Te lucis ante terminum, in quale modo ha influenzato la sua crescita musicale?

    "La classe di composizione di Niccolò Castiglioni del Conservatorio di Milano era un’isola felice, forse l’unica, dove giovani naufraghi coltivavano passioni diverse, interessi e curiosità musicali che altrimenti non avrebbero trovato possibilità di risposte e ascolto. La sua musica, anomala e indipendente rispetto all’ortodossia delle avanguardie seriali e post Darmstadt, includeva elementi della musica tonale e un metodo di scrittura lontano anni luce da quello di molti altri suoi illustri colleghi, un metodo affidato al rapporto diretto con il suono, con l’orecchio, fuori da ogni calligrafismo e compiacimento di musica “scritta”. Questa alterità faceva sentire noi allievi una specie di setta, in parte vista con sospetto, ma rispettata per l’autorevolezza dell’insegnante, anch’esso comunque anomalo in un sistema che solo a parole invocava la molteplicità. Mai un cenno da parte sua di disapprovazione per scelte lontane dal suo stile, nessuna costrizione sulla metodologia per comporre, nessuna traccia di “plagio” calligrafico come invece era frequentissimo intravvedere nelle partiture di nostri colleghi studenti in altre classi."


10. Il musicologo Franco Pulcini definisce la sua musica “Un ‘avanguardia che guarda indietro”. Quali sono i principali aspetti della sua produzione musicale?

    "La musica di derivazione tonale dei grandi autori del primo novecento fuori dalla scuola di Vienna era per me il modello da cui cominciare, un modello testato e ampiamente collaudato da capolavori entrati nel repertorio. Questo mi rassicurava e rafforzava nel convincimento che la strada era non solo ancora percorribile ma erano praticabili nuove interpretazioni e variazioni, la musica di Castiglioni andava in questa direzione per esempio.

Non c’erano proibizioni ma solo finestre da aprire, non dogmi astratti ma spazi creativi in cui la trasformazione del materiale era anche ludica. I miei studi accademici, strutturati su testi molto rigidi e pedanti ma necessari a una formazione disciplinata, si focalizzarono poi sullo studio del madrigale cinquecentesco che mi attirava enormemente per il rapporto tra linee contrappuntistiche e interpretazioni espressive del testo poetico. Questo studio ha segnato profondamente la mia prima fase creativa; la mia armonia, i miei colori strumentali derivavano dalla rielaborazione orizzontale di accordi sentiti come linee melodiche; Stravinsky prima e poi Strauss mi indicavano in questo senso come rileggere l’armonia tonale tradizionale. Di fatto non ho mai ragionato razionalmente in modo tonale né mi sono preoccupato di elaborare dei criteri a priori con cui preparare una composizione; stare al pianoforte e anzitutto improvvisare, lasciare che i miei accordi e melodie arrivassero dall’orecchio sulla punta delle dita, questo era ed è il mio sistema. La forma variazione in seguito ho scoperto essere la mia forma ideale, naturale, la più adatta a convogliare ordinatamente il mio pensiero rapsodico. Lo studio dell’orchestrazione mi ha da subito appassionato e la mia ammirazione per i compositori virtuosi del timbro, i russi anzitutto, mi ha guidato del tutto spontaneamente verso il mio suono personale e con esso il mio stile. Per scrivere musica la tecnica è indispensabile ma la naturale sorgiva sensibilità per il timbro può fare la differenza.

Quello che mi convinceva e attirava era la musica scintillante e ricca di vitalità e colori tipica delle avanguardie parigine, russe e dei meravigliosi corni magici mahleriani, i grovigli contrappuntistici delle partiture teatrali straussiane, insomma quella musica moderna che comunicava direttamente al mio orecchio senza intermediazioni teoriche e senza limitazioni e filtri all’idea di una nuova possibile complessa e ricchissima bellezza sonora, bellezza immediatamente percepibile, sensuale, che come giovane autore potevo assimilare senza sforzo e tentare di emulare. Questa percezione di “comunicazione” di bellezza e possibilmente di verità, era necessità imprescindibile, era il mondo in cui volevo stare, in cui avrei sempre voluto stare. Questa musica volevo scrivere, riproducendola in libertà, cantandola, come fosse stata scritta tutta da me, da sempre."


11. La sua musica quale carattere rivela, quali sono le sue esigenze interiori? Qual è il suo ideale di essenza e bellezza in musica e nell'arte?

    "Io ho sempre pensato che la musica e l’arte in generale abbiano un valore anche etico, di miglioramento della nostra vita reale e quindi desidero che tutta l’arte serva a qualcosa, sia integrata nell’esistenza, ci parli e esprima sentimenti condivisibili, aspiri a una bellezza possibile, riconoscibile, di elevato valore spirituale, fuori dal tempo e dalla moda contingente, un’arte che comunichi semplicemente la complessità, l’eternità.

Ho sempre amato la pittura e la poesia, in casa avevamo una piccola collezione di tele novecentesche, in alcuni casi di amici diretti di mio padre, acquistati negli anni trenta e quaranta spesso per pochi soldi. Sono stato attratto fortemente dal disegno io stesso ma con scarsi risultati. Ho sempre preferito le arti figurative alla letteratura perché coinvolgeva il corpo, un’arte fisica a contatto con la materia grezza, con oggetti reali e cose reali e la poesia perché più vicina alla sintesi tipica del suono, senza descrizioni aggiuntive e psicologismi. Il mio approccio verso la scrittura musicale è più vicino a quello di un pittore o scultore o di un poeta piuttosto che un romanziere, per me ha importanza il suono come risultato di un gesto fisico ispirato da un ‘intuizione poetica misteriosa ma viscerale, non astratta. Per anni ho frequentato con assiduità mostre d’arte e gran parte della mia cultura letteraria è fondata sulle opere dei poeti, da Ovidio in poi, fino ai miei contemporanei di alcuni dei quali sono anche amico e che ho musicato."


12.Il suo carnet di composizioni è pregevole. Dalla sua opera d'esordio Nuvole del 1980, premiata su segnalazione di Goffredo Petrassi alla “Rassegna Internazionale di Musica e Teatro da camera della Associazione Filarmonica Umbra” e scelta poi dalla RAI per partecipare nel 1982 alla “Tribuna Internazionale dei Compositori” a Parigi, e dal suo esordio alla Biennale di Venezia nel 1981, quali sono state le composizioni  e gli eventi  più importanti della sua carriera artistica?

    "Tra le mie composizioni più significative posso citare anzitutto “Le nuvole” con cui esordii alla Biennale di Venezia del 1981, un brano da camera che in omaggio al mio Maestro Castiglioni, assorbiva insieme ai suoi insegnamenti anche le influenze che accomunavano lui e me, cioè Stravinsky e Messiaen. La “Prima Sinfonia” del 1983/84 , tra le mie prime importanti commissioni, attorno alla quale sicuramente ci fu una bella concentrazione solidale tra noi amici neoromantici, in questo caso il mio raggio di influenze si ampliava accogliendo i primi segni del mondo mahleriano e straussiano; “Alice”, mia prima opera in tre atti andata in scena a Palermo nel 1993, sicuramente un punto di arrivo di tutto il mio lavoro in quasi  quindici anni di produzione, concentrato di tutta la mia energia poetica e artistica e manifesto perfetto di tutto ciò che avevo pensato musicalmente e per cui mi ero battuto senza risparmio. In qualche modo potrei affermare che Alice, la mia Alice, c’est moi!"


13. Ritiene che il teatro musicale sia stato uno degli aspetti fondamentali del movimento Neoromantico?

    "Il teatro musicale ha avuto una grande influenza sulla mia passione per la musica in generale cominciando dal balletto però. Mia madre, che aveva studiato e danzato alla Scala, mi parlava fin da piccolo della danza e della bellissima musica per la danza, Tchaikovsky ma anche quei minori autori “artigiani” che mi attraevano con le loro seducenti facili melodie. Il palcoscenico, le punte, il tutù, poi Diaghilev e la mitologia dei Ballets Russes, Stravinsky! Stranamente solo negli ultimi dieci anni ho finalmente cominciato a scrivere molta musica per la danza. A mia madre devo anche la passione per l’opera, la sentivo spesso canticchiare arie di Puccini che sapeva a memoria e comunque in casa mia la musica, anche per il lavoro di mio padre, risuonava continuamente, tutta la musica, le canzonette e il jazz, l’opera e la musica sinfonica...mio padre aveva una collezione di migliaia di dischi. Verdi e Puccini, studiati e amati nella classe di Flavio Testi, ascoltati nelle grandi interpretazioni scaligere di quegli anni e poi le scoperte novecentesche fino a Janacek e Britten, passando per Strauss, più tardi il lento inesorabile avvicinamento a Wagner, tutta questa tradizione attraverso la parola scenica, il canto, mi sembravano la vetta massima che ogni compositore poteva ambire di raggiungere. Alcuni miei colleghi già si cimentavano con l’opera, genere che più di tutti l’avanguardia seriale disprezzava e ignorava come vecchiume; era logico che il nostro movimento di opposizione tenesse il teatro musicale come primo oggetto del desiderio, veicolo ideale per rispondere coerentemente al dogma della rivoluzione permanente, perché giustamente autori italiani, diretti discendenti di un passato così unico. Con la mia ALICE, scritta tra il 1986 e il 1992, contribuii con uno sforzo immane (tre atti, orchestra enorme, 12 cantanti e una durata di quasi tre ore) al progetto Opera che ci legava quasi tutti. Sicuramente questo genere, legato al canto e alla scrittura melodica, è stato un perno fondamentale del movimento neoromantico e lo è tuttora."


14. Allo stato attuale ritiene si instaurino rapporti tra compositori e librettisti come nell'Ottocento?

    "La mia unica esperienza di lavoro con un poeta, che diventa librettista nell’occasione di scrivere un testo da cantare in teatro, oltre a svariati altri tentativi mai andati a buon fine con diversi “librettisti”, mi ha insegnato che almeno per me non è più possibile un rapporto veramente fruttuoso con un poeta che riesca a trovare le parole, il senso, il ritmo giusto per la mia musica e il mio fraseggio. Ho elaborato molto chiaramente dopo trentacinque anni di attività, il mio senso della melodia, dove ho bisogno di avere un accento e dove no, quanto deve essere lunga o corta una parola; in sostanza la mia parola poetica è possibile solo se sgorga dalla musica stessa che scrivo tanto è legata al senso e alla figurazione ritmica. Tutto deve appartenermi e deve essere modificabile perché sottoposto alla frase musicale, il teatro nasce da questa intima unione che può certo essere condivisibile con qualche poeta fortemente motivato e in sintonia ma che per lo più resta veramente possibile e realizzabile solo se come compositore sono al contempo artefice della parola scenica. Wagner, Janacek e persino l’ultimo Strauss sono un chiaro esempio di questa necessità. Altri colleghi naturalmente preferiscono un rapporto con poeti che li guidino e ispirino ma so bene che è una strada molto insidiosa e faticosa. I poeti veri sono molto restii a cambiare qualcosa del loro testo, anche perché spesso troppo “alto” nel tono,  gli altri scrittori o drammaturghi spesso non capiscono che la musica ha la parola definitiva, che bisogna togliere invece che aggiungere, che non serve spiegare uno stato d’animo o raccontare tutto, lo farà la musica, il suono riempirà il vuoto lasciato dalle parole mancanti. La parola cantata è diversa da quella scritta o recitata, il canto richiede cose molto “strane” , lontane spesso dalla comprensione e sensibilità degli scrittori, il ritmo musicale è diverso da quello poetico. Difficile accettare questi compromessi, pur necessari, oggi da entrambe le parti in causa.


15. Prendendo in esame la sua opera Alice, opera in tre atti per 26 personaggi, 12 cantanti, coro ed orchestra, frutto di un sapiente lavoro durato otto anni e della sua collaborazione con il poeta Danilo Bramati, il quale scrive il suo primo libretto atto ad essere musicato, ritiene che tale opera presenti dal punto di vista strutturale affinità con il melodramma considerando la struttura stessa dell’opera in pezzi chiusi, duetti, concertati ed arie? Una fusione tra opera wagneriana e opera buffa?

    "ALICE è il risultato di un tentativo, a mio parere quasi del tutto riuscito, di coniugare la necessità della cantabilità del testo nel senso più tradizionalmente melodico, italiano, con un accompagnamento o commento sinfonico molto colorato e complesso, denso di contrappunto e animato da sempre mutevoli impulsi ritmici. La chimera di coniugare la musica vocale e quella strumentale in un unico corpo pulsante, avvincente, emotivamente sempre vivo e narrante, che con Wagner trova la sua prima incarnazione, mi affascinava e stimolava già ancora studente di conservatorio. Impresa difficilissima e rischiosissima, soprattutto per un compositore italiano. Il modello di Korngold, almeno nella meravigliosa Die Tote Stadt, mi ha dato un incoraggiamento in più, dopo lo studio approfondito delle opere di Richard Strauss, Die Rosenkavalier anzitutto. Attualmente cerco di trovare, scrivendo la nuova opera “Leonce e Lena”, una più pacifica e meno convulsa unione stilistica tra le due mie nature, quella che mi impone chiarezza formale e melodica con l’altra, che mi spinge a cercare un virtuosismo timbrico strumentale attraverso il contrappunto e il ritmo. Sono due atteggiamenti che in me da sempre coesistono e cercano la condivisione.”


16. Come sceglie l'argomento di un'opera e in che rapporti è con i librettisti? In una sua intervista ne Il Giornale della Musica di giugno 1989 afferma che per lei “il canto è il veicolo della poesia, e perciò scrivere il proprio libretto potrebbe essere la soluzione ottimale”, infatti nella sua commedia appena terminata Leonce e Lena ha composto il libretto. Ha in programma altri progetti simili?

    " Molti anni orsono, poco prima di cominciare a scrivere “Alice”, mi interessai molto alle opere di G. Buchner, in particolare a Leonce e Lena. La fiaba mescolata alla feroce critica verso le certezze sociali, la malinconica introspezione e il gusto per il paradosso, il gioco dello scambio di ruoli, l’asciuttezza del linguaggio, la teatralità trasfigurata dall’estasi della parola poetica, tutto questo mi attirava e mi influenzava nella scelta della commedia di Buchner per adattarla a libretto per musica. Queste sono alcune motivazioni che mi spingono a mettere in scena e far cantare personaggi, che sono profondamente reali proprio perché “maschere”, archetipi. La lezione di Shakespeare rimane un faro di perenne ispirazione.

Abbandonai in quegli anni l’idea perché non adatta ad un’opera di grandi proporzioni ma l’ho ritrovata e rivisitata dopo tanto tempo perché ho pensato a una nuova scrittura di teatro musicale da camera, con un organico strumentale ridotto e un ridotto numero di voci, più adatta ed efficace, oggi, alle esigenze di messa in scena dei nostri teatri.

Per la prima volta ho affrontato la scrittura del libretto, adattando il testo originale (nella sua traduzione italiana) ai miei “ritmi” e al mio fraseggio melodico, non trovando difficoltà particolari ma con grande slancio e facilità; ho utilizzato una versificazione piuttosto libera ma sempre ascoltando il mio istinto prosodico tutto finalizzato all’ efficacia e comprensibilità del suono e del significato della parola. Non escludo di poter scrivere ancora del teatro musicale su un testo di qualche amico poeta ma per il momento voglio approfondire il mio personale istinto teatrale senza altre influenze.”


17.In una sua intervista ne L’Arena del 29 ottobre 1991 dichiara che “il modo migliore per avvicinare il pubblico alla musica d’oggi sia quello di abbinare lenovità a pagine del repertorio classico in modo da permettere un confronto diretto con il passato; confronto che, se messo in atto da sempre, avrebbe fatto cadere con largo anticipo molti miti della musica d’avanguardia”. Quali sono le sue composizioni che rispecchiano maggiormente tali peculiarità?

    “Non ci sono riferimenti o citazioni nella mia musica che siano direttamente collegabili a modelli amati e studiati  di epoche diverse, io scrivo solo per sentirmi nel flusso della vita attraverso la musica che sono in grado di produrre naturalmente. Al contempo ci sono, ineludibili, segnali di un’appartenenza culturale e sentimentale a quelle stesse musiche che ho tanto studiato, amato e emulato e questo è un processo ovvio e impossibile da evitare per qualsiasi artista, anche il più sperimentale, se in buona fede. Ci sono periodi differenti, stili differenti, nella mia scrittura, oggi dico cose in parte diverse da quelle che dicevo nel 1980 o nel 1993, questo è ragionevolmente vero per ogni artista, ma è anche vero che come diceva Stravinsky un compositore continua a lavorare sullo stesso pezzo per tutta la vita, quel pezzo è il suo stesso stile che di volta in volta si abbiglia con fogge solo apparentemente diverse. La memoria della nostra comune tradizione è cosa viva, i miei modelli sono vivi con me, mi sono contemporanei, mi parlano e io capisco cosa mi dicono. Così cerco di imitare il loro atteggiamento, trasferire le loro emozioni primarie attraverso forme anche complesse, forme nuove e seducenti, forme che riescano anche a sorprendermi mentre ci lavoro ma che mi riportano tutte verso una casa comune, che conosco bene, che ho amato, digerito, e poi restituito al meglio delle mie possibilità. Questa sorpresa potrebbe passare da me a chi ascolta, se ho lavorato bene, duramente e con passione sincera. La bellezza dell’arte è lì, bisogna solo coglierla, vederla, accorgersi che esiste e ci può trasfigurare, farci diventare magari anche migliori, chissà...”


18. A distanza di 30 anni dalla dichiarazione “Carta 83” apparsa su Musica Viva, qual'é lo stato attuale del movimento musicale Neoromantico?

    "Penso che ci siano le condizioni, vista la gravissima situazione di imbarbarimento culturale, per una nuova forma di espressività basata su quella esperienza artistica iniziata trent’anni fa, proprio  a causa di questa devastazione. Molti segnali importanti tra i giovani autori e molti anche tra noi più vecchi protagonisti, una sorta di risveglio naturale dopo un attivo silenzio, una voglia di riconnettersi gli uni con gli altri che avevamo dimenticato. Non è più tempo di polemiche sterili tra partitelli contrapposti, quelle idee restano intatte perché erano fondate non su una ribellione generazionale o su una moda passeggera, ma su principi di coscienza e consapevolezza del significato di comunicazione artistica che erano frutto di un’eredità secolare, profondamente radicata nella storia e nell’evoluzione spirituale occidentale."

19. Perché il Neoromanticismo non ha avuto una più ampia diffusione?

        “Il Conservatorio di Milano era allora il centro musicale più importante in Italia, insegnavano i più famosi compositori della generazione dal ’20 al ’40 e gli editori (Ricordi, Suvini Zerboni e Sonzogno) erano in fibrillazione, pronti a pubblicare e promuovere gli autori d’avanguardia e i loro discepoli, c’erano le orchestre sinfoniche della Rai, festivals di musica nuova su tutto il territorio nazionale, nuove musiche venivano commissionate, eseguite e registrate in modo capillare e costante. Insomma la stagione musicale felice degli anni settanta-ottanta. La critica era militante, legata agli interessi comuni di editori e istituzioni in un circolo apparentemente virtuoso di spinta e sostegno per la musica contemporanea. Così tutto sembrava presupporre un avvenire pieno di arte nuova e di pubblico nuovo, ma le cose non erano esattamente come apparivano essere.

Ben presto, a cominciare dalle aule del Conservatorio milanese, l’ideologia “evoluzionista” del progresso continuo del linguaggio musicale in perenne rivoluzione, mostrò la sua faccia pedante e discriminatoria trasformandosi velocemente in accademia, all’infuori della quale nulla di buono poteva quantomeno coesistere.”


20. Perché secondo lei non sono stati eseguiti degli studi sul movimento neoromantico?

    “Il clima di soggezione della fine degli anni settanta di molta critica e musicologia italiana verso il “potere” culturale dominante, paladino della sperimentazione forzata e della musica seriale ha condizionato pesantemente anche i timidi tentativi di alcuni coraggiosi amici che da subito avevano provato interesse critico per il nostro lavoro. Negli Stati Uniti il movimento neoromantico negli stessi anni ha invece prodotto un grande lavoro di analisi e comprensione della nuova corrente coinvolgendo tutti i potenziali nuovi committenti di queste opere. In Italia il Partito Comunista in testa, considerando la nostra corrente come reazionaria se non addirittura fascista, dettava i dogmi del come e cosa scrivere e di conseguenza, avendo in mano gran parte di quel potere nei teatri, nei giornali e nei Conservatori teneva sotto controllo tutte le eventuali voci dissidenti. Attualmente le cose sono mutate in meglio ma ci sono tanti capitoli di storia della musica contemporanea italiana da riscrivere, mi auguro che ciò accada presto, ristabilendo valori e forze attraverso un’analisi oggettiva delle opere.”


21. In un articolo apparso su “Il Giornale” del 21 aprile 1993 lei definisce “il lavoro del compositore a dir poco folle”, che “l’unica vera musica contemporanea è il rock” e che “a parte i grandi dell’avanguardia riconosciuti dalle istituzioni musicali e consacrati da una precisa parte politica, il pubblico ignora che vi sia chi scrive opere, sinfonie, quartetti d’archi e crede che i compositori siano tutti morti.”  Ritiene che l'Italia sia uno stato "chiuso" o "arretrato" perché non ha permesso un'evoluzione della corrente neoromantica?

    “Il nostro amato e disgraziato Paese è vittima di se stesso e deli propri difetti congeniti, anarchia, ignoranza, disfattismo, abulia, rassegnazione, incuria. In Italia manca la cultura musicale dalle scuole dell’obbligo, i giovani non conoscono e quindi non possono amare ciò che non conoscono. Qualcuno deve aiutarli a conoscere per decidere se vale la pena di amare l’arte oppure occuparsi solo di calcio, nel migliore dei casi. Si può amare qualsiasi cosa, qualsiasi musica ma devo poter decidere liberamente e consapevolmente, devo avere i mezzi critici per distinguere Beethoven da una bella canzone rock, un bel fumetto dalla Cappella Sistina di Michelangelo. La bellezza è dovunque ma bisogna sapere dove cercare e perché è importante farlo. La musica contemporanea o musica d’arte classica di oggi rientra in quanto tale in questa mancanza di informazione e diffusione. Bisogna fare una rivoluzione dello spirito!”


22. In tal senso ritiene che in Italia la legge di mercato sia indirizzata verso altre forme musicali? Perché?

    “Il  vuoto culturale, la mancanza di investimenti per la cultura facilita la scelta di chi vuole consumare qualsiasi cosa sia consumabile: entro in un negozio perché voglio comprare un paio di scarpe ma non so veramente cosa mi piace, guardo gli scaffali e vedo solo quello che altri hanno deciso dovrà piacermi e alla fine compro nella convinzione di aver scelto davvero io. La musica di consumo lavora facendo perno su questo principio, c’è un vuoto da colmare, ti creo un desiderio di questo prodotto che prima non avevi e tu in mancanza d’altro lo consumi e sei contento pensando di aver fatto una scelta libera. Intanto altri ci guadagnano e  mentre il povero ragazzo di borgata ascolta il suo rapper preferito, lo stesso rapper miliardario si compra una casa bellissima piena di opere d’arte. A lui la bellezza che dovrebbe essere di tutti, al ragazzo nulla, solo qualche rumore in più che gli confonde le idee e lo tiene tranquillo nella sua povertà priva di vera bellezza (che non sta nella casa bellissima).”


23. Ritiene che la globalizzazione influisca positivamente sui linguaggi artistici o sarebbe preferibile un pensiero nazionale in ambito musicale?

    "Ho già accennato a questo ma voglio dire che oggi sento molto questo aspetto del genius loci e della necessità di elaborare un pensiero nuovo su questo. Non si tratta di scuola nazionale ma di essenza oggettiva, per noi artisti italiani c’è più di altri popoli una oggettiva spontanea propensione per la luce e la bellezza in chiaro, luce e chiarezza che sono nel paesaggio e nell’arte che abbiamo sempre prodotto, una sensualità che ci contraddistingue e separa verticalmente dalle rigidità del mondo nordico ad esempio, più cerebrale e concentrato. La nostra dispersione nel mare delle bellezze spontanee è per noi cosa ovvia, inconscia, spudorata, non ne abbiamo una vera coscienza perché congeniale al nostro genius loci, inestirpabile ma anche certamente molto esportabile. Il made in Italy, per considerare gli aspetti più materiali, è una realtà complessa ma giustificata e comunque un tenace avversario della perfidia ottusa della globalizzazione. Non so se l’arte italiana possa esistere in quanto tale, c’è molta confusione su questo e la contaminazione linguistica è un dogma che appare ancora forte e imbattibile; nella musica contemporanea oggi si parla questo esperanto di gesti musicali, un catalogo inutile di cose che hanno un solo passaporto e non ci trasportano mai in un luogo preciso se non in un paese generico dove si parla un’unica incomprensibile lingua. Lo stile dei compositori lascia spazio agli stilemi, l’appartenenza territoriale e culturale è sostituita da una password criptica che elimina il punto di vista soggettivo, la propria storia, il vissuto. Un autore aggiornato, che ha seguito le istruzioni in esperanto su come ci si deve comportare in società, può essere nato nel Congo o in Islanda, nulla sapremo di lui e nulla comparirà della sua vita e del suo genius loci all’ascolto della sua musica. Potrebbe essere chiunque in qualunque luogo, l’importante è che sia aggiornato, che si capisca che ha fatto l’aggiornamento, pena l’esilio nel passato, nell’epigonismo, nella non cultura. Nelle musiche degli autori italiani neoromantici ci sono molti messaggi espliciti di condivisione di una appartenenza, mi piace definirla una comune appartenenza alla luce, italiana. Credo che sarà questa una delle strade per la rinascita creativa della musica d’arte nel mio paese."


24. Quale suggerimento darebbe ai nuovi compositori in qualità di docente?

    "Cercherei di trasmettere la gioia di ascoltare il suono e interiorizzarlo, mi sforzerei di spiegare quanto è importante ascoltare il proprio “canto”, assecondarlo e trasformarlo in un oggetto emozionante. Non so se si può fare in una scuola istituzionale, combattendo con le riforme e le atrocità ministeriali.

Per me arte è etica, serve a migliorare la nostra coscienza, ad affinare il nostro gusto per la bellezza e l’eternità delle cose, serve a ridare speranza e nutrimento alle nostre vite spesso grigie, incarcerate, monotone. L’arte è la religione perfetta perché umana e divina al contempo. Io vivo per tentare di essere questo.

Attualmente ho ripreso contatto con giovani aspiranti compositori e la fiducia nella possibilità di essere utile in qualche buona misura alla loro crescita generale mi sembra aumentata, forse i tempi sono di nuovo maturi per una seconda rivoluzione. Di fatto in Italia il movimento ha lasciato un’eredità che è pur minoritaria ma molto agguerrita e chiara nelle intenzioni, senza i dubbi che avevamo noi ma anche senza quel terreno fertile di scambio che ci ha dato spazio e voce. Sto personalmente tentando di lavorare con pazienza a questo strappo e spero che i miei amici mi aiutino in questo. Essere direttore di qualcosa mi è sempre sembrato improponibile per il semplice motivo che non riesco a non dire quello che penso. Avrei tante belle idee al riguardo però."


25. Gli Enti di produzione musicale e le case editrici musicali in quale misura influenzano  il processo di diffusione e produzione musicale?

    "Avere rapporti con enti musicali, teatri e editori fa parte del fardello di incombenze necessarie e spesso sgradevoli che un compositore deve affrontare, ma vuol dire soprattutto avere a che fare con altri uomini e donne che fanno quello specifico lavoro e che come tutti rispondono spesso ad altri uomini e donne del loro ruolo e delle scelte; una catena difficile da seguire ma ineludibile. Dipende molto dall’attitudine caratteriale e dalla voglia di essere disponibili al compromesso, anche innocente e sopportabile. Se con gli editori ho avuto un rapporto costante ma non per questo sempre fruttuoso, molto peggio è andata e va con le istituzioni, la cui attuale decadenza anche morale oltreché organizzativa almeno in Italia, rende il mestiere del compositore assolutamente inadeguato, fuori da ogni logica di business, senza alcun rapporto apparente tra qualità del prodotto offerto e relativo riscontro, in un intricato sistema di relazioni che mettono a durissima prova il sistema nervoso e l’immaginazione. Ci sono realtà che interrompono questa normalità distorta e quando mi capita di trovare interlocutori veramente disponibili è come trovare un tesoro inaspettato, anche solo per parlare dell’oggetto in sé, della musica che stai proponendo. Ci vorrebbe una vera rivoluzione in questo labirinto ma non so chi potrebbe esserne nuovo protagonista e con che successo se non si ricrea un “mercato” della musica d’arte. Sarebbe bello se si creasse un circolo virtuoso di committenza privata fuori dalle istituzioni pubbliche ma ancora non vedo nulla di solido all’orizzonte italiano."


26. I Sette Canti Romantici li ha composti su richiesta del soprano Barbara Frittoli. Com'é nato questo ciclo?

    “Conoscevo Barbara Frittoli fin dai suoi esordi al Conservatorio di Milano, un carissimo comune amico, il direttore d’orchestra Daniele Callegari (ha diretto tra l’altro la mia Seconda Sinfonia e Alice) me la presentò qualche anno prima e in seguito la grande soprano mi chiamò e chiese di scrivere per lei qualcosa. L’occasione era stupenda, imperdibile. Mi misi subito al lavoro, le poesie le conoscevo e amavo già. Debuttò i Canti in un concerto della Società del Quartetto di Milano.


27. Ha scelto prima le poesie di Shelley, Conte, Pontiggia, Martino e poi creato un ciclo?

    “Naturalmente la scelta è prima attorno a un nucleo di poesie adatte a essere reinterpretate attraverso il canto e questa è una scelta molto difficile, a volte disperata...la parola adatta al canto non coincide necessariamente con la parola più espressiva poeticamente. Poi c’è la questione del ritmo interno del verso che devi sentire intimamente adatto al tuo ritmo musicale, al tuo modo di costruire una linea di canto, infine c’è il contenuto che può unire testi differenti e farli diventare un vero ciclo anche se appartengono a epoche e poeti diversi in lingue diverse.


28. Qual' é il filo conduttore di questi sette canti?

    “Il filo conduttore è l’animo umano, l’amore, il senso delle cose, tutto e niente insomma, attraverso stati d’animo lirici di poeti sommamente lirici. Giuseppe Conte ha tradotto le poesie di Shelley che ho utilizzato. Conte stesso e Pontiggia sono due poeti che conosco personalmente e che ritengo tra i massimi viventi italiani. Sono entrambi molto vicini al mio cuore e al mio modo di sentire. Martino mi sorprese con una bellissima raccolta di testi che non conoscevo (si occupa inoltre di musica come direttore editoriale del Giornale della Musica) e dalla quale scelsi una struggente lirica.


29. Qual' é il rapporto tra musica e testo?

“Nel titolo Sette Canti Romantici c’è l’essenza del ciclo anzi il tono potrei dire che uniforma le poesie e quindi il colore della musica da queste ispirata: la parola ...romantici... segna un percorso preciso ancorché indipendente da un’epoca o uno stile vero e proprio, un cammino verso il gesto forte, il turbine di un animo inquieto che mi appartiene in parte, come a molti esseri umani ovviamente. Nell’apparente abbandono lirico, in una quiete instabile delle parole dei poeti ho trovato delle fessure in cui potevo imprigionare frasi molto cantabili e subito ripiegare nella penombra della sfumatura, del sussurro, in oscillazione tra malinconia e forza vitale.


30. La parte orchestrale del pianoforte è predominante sulla parte vocale. Quali i motivi di questa scelta? Musicalmente come li ha costruiti?

    “La parte del pianoforte non è predominante nel senso di prevaricazione del canto o contrapposizione per antitesi anzi. Il pianoforte suona orchestrale perché questo è il mio stile, derivato certo dal modello straussiano ma necessario a sostenere nel modo più ricco possibile ogni singola sillaba del testo. Ci sono momenti di grande forza ritmica e momenti di abbandono ma credo sempre utili alla mia interpretazione del testo. Stranamente, non ho mai pensato di orchestrarli, non so spiegarne il motivo. Credo però che in buona parte il loro interesse musicale sia anche legato alla forza espressiva del suono en blanc et noir del pianoforte, drammatico e incredibilmente sempre moderno.”


31. C'è qualche legame con altre sue composizioni?

    “La mia produzione liederistica per il momento, a parte un altro ciclo che però ancora non ha avuto le stampe, è ridotta a questi Canti. Non ci sono speciali relazioni tra questi lieder e altra mia musica, fatta eccezione per Alice naturalmente, che è stata una palestra incredibile per la mia conoscenza della vocalità. Sarei felice se anche in Italia i cantanti lirici scoprissero la bellezza di cantare lied col pianoforte ma non abbiamo una vera tradizione, l’opera assorbe quasi completamente il loro interesse e i teatri non fanno molto per incentivare questa meravigliosa forma musicale. Speriamo nelle giovani generazioni.”


INTERVISTA a cura di VINCENZA LONGO per www.excursus.org, anno IX, n. 79, gennaio 2017


Giampaolo Testoni, nato a Milano nel 1957, è un compositore del nostro tempo. Figlio d’arte, ha esordito nel 1978 e da allora la sua musica è stata eseguita e commissionata in Italia e all’estero. Ha fondato nel 1980, con altri giovani compositori italiani, il movimento musicale poi definito dalla critica “neoromantico”, in aperta ostilità culturale e metodologica con le avanguardie Post-Darmstadt. La sua esperienza di opposizione lo colloca in una sorta di “zona franca” in cui il compositore milanese si muove tra tradizione e innovazione: uno spirito libero che, riprendendo la grande lezione della musica al di fuori dalla seconda Scuola di Vienna del Novecento, non rinuncia all’espressività e all’idea moderna di ampia comunicazione del suo contenuto musicale.


- Iniziamo, come d’obbligo, dalle origini. Suo padre, Gian Carlo Testoni, era un paroliere, un poeta.

La tradizione di famiglia era quella del teatro: Alfredo Testoni, mio prozio, era un famoso poeta, commediografo e “capocomico” che ha scritto dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale mio padre si occupò, con alcuni colleghi, anche di musica jazz, allora vietata dal fascismo. Erano riusciti a farsi inviare da un amico, Ezio Levi, i primi dischi jazz, disponibili negli Usa, che ascoltavano nelle cantine. Alla fine del conflitto si dedicò alla critica militante di questa nuova musica fondandone la prima rivista italiana e scrivendone la prima enciclopedia.

Negli anni Cinquanta, agli esordi della musica leggera, scrisse canzoni notissime come Grazie dei fior e Perduto amore (in cerca di te), melodie famose del repertorio di quegli anni (bisogna specificare che allora non esistevano i cantautori, ma parolieri e compositori che scrivevano per gli interpreti).


- Una questione molto discussa è quella del rapporto tra musica e parola: lei crede ci sia un predominio di una sull’altra?

Come conseguenza dei miei studi accademici di composizione, concentrati soprattutto sul madrigale, ho sempre preferito leggere più poesia che prosa. Il madrigale è incentrato sull’idea che la musica sia generata dalla poesia e, pertanto, il compositore cerca di esprimere al massimo grado l’intensità, il significato di ogni parola. Questo rapporto così intenso con la parola poetica per generare l’espressività musicale, e, quindi, il tentativo di esprimere con la musica il significato della parola poetica, è un fatto vitale: più alto sarà il tono della poesia più sarà elevato ed intenso il tono musicale. Se un compositore è attento a questo il testo poetico aiuta ed è come se la musica fosse già scritta. Questo aspetto mi ha attirato e poi anche molto influenzato.


- Forse è più semplice arrivare al pubblico con la parola.

In Italia il repertorio liederistico non ha avuto sviluppo perché il nostro melodramma, scritto con la nostra lingua, ci appartiene biologicamente. Attraverso la liederistica il rapporto con il pubblico, a mio parere, può, però, essere più intenso: è meno potente perché non c’è l’elemento teatrale, il testo è nudo, si è in diretto contatto con esso, ma la grande tradizione e il repertorio non comprende la nostra lingua, tranne una piccola parte novecentesca.

La liederistica potrebbe essere ancora un mezzo per avvicinare alla musica classica perché, in fondo, c’è ancora questa differenza: i melomani spesso non frequentano i concerti di musica da camera e gli appassionati di musica classica a volte non amano l’opera, mondi spesso antitetici.

Si potrebbe tentare di attirare un nuovo pubblico estraneo a entrambi i modi, ma che ascolta le canzoni pop. Bisognerebbe trovare una chiave interpretativa musicale e poetica, una musica e una poesia che parlino una lingua comprensibile e potenzialmente assimilabile anche da chi non ha esperienza e cultura musicale tradizionali. È un’ipotesi forse utopica vista la scarsità di mezzi economici destinati alla cultura e alla diffusione della musica d’arte più in generale.


- Dal 1986 al 1993 scrisse Alice, un’opera in tre atti tratta da Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Alice oltre lo specchio di Lewis Carroll e, dopo quattro anni, compose i Sette Canti Romantici per voce e piano su poesie di P. B. Shelley, G. Conte, G. C. Pontiggia, D. Martino: ha notato un diverso riscontro del pubblico?

In entrambi i casi c’è stato un grande successo, un uditorio che ha accolto con gradimento e, forse, con stupore la mia musica, travalicando quei limiti virtuali di pubblico e superando le barriere di genere e mercato musicali. Tutto questo, potrei dire, grazie al mio linguaggio da sempre improntato alla ricerca di comunicazione di “affetti” e non “effetti”, complesso, ma comprensibile, memorizzabile persino, molto votato all’emozione sensuale dell’ascolto.


- Prendendo spunto da una fiaba, la sua Alice può sembrare più fruibile.

Sì, anche se la mia Alice, essendo una variante molto “adulta” dei testi originali, ha ben poco di fiabesco e di rivolto al pubblico infantile. È lo sguardo dell’artista rispetto alla società; anzi, essendo un personaggio che osserva il mondo e poi si pone domande su di esso, le conseguenze possono portare a risultati tragici. Certo, a un primo sguardo ha ancora i contorni della fiaba con personaggi bizzarri, fantastici, un’originalità che, non le nego, fu molto utile: ricordo che molti genitori portarono i loro bambini, e anche più volte. Nonostante la durata dell’opera e la difficoltà, il risultato fu positivo e molti significati espressi dai personaggi, benché ambigui e complessi, vennero percepiti con chiarezza e semplicità. È ovvio che i più piccoli, attratti dall’aspetto fiabesco, non riescano a cogliere sfumature e sottotesti, però la musica è riuscita a veicolare emozioni fondamentali per tutto il pubblico senza eccezioni di età e cultura. La mia Alice ha una musica molto melodica, platealmente cantabile, ricca di timbri; l’impatto emotivo era, insomma, molto forte e avrei potuto raccontare qualunque cosa perché il risultato sarebbe stato ugualmente incisivo e trascinante.


- Ha scelto la fiaba di Carroll in quanto adatta ad illustrare l’immagine dell’artista estraniato, scopritore di una realtà non immediatamente e generalmente percepita?

Con un mio carissimo amico poeta, Danilo Bramati, che scrisse il libretto, arrivammo a questo soggetto perché universale come significato, ma in definitiva ambiguo, aperto a ogni possibile interpretazione. I due libri di Carroll non hanno una direzione precisa, sono libri bizzarri da questo punto di vista. Il mondo di Alice è strano, è un groviglio di cose che avvengono, ma sufficientemente aperto nel significato per poterlo direzionare dove volevamo noi. Fu, quindi, una scelta dettata da questa possibilità di comunicare attraverso un testo che già dal punto di vista spettacolare offriva ampie possibilità.


- I Sette Canti Romantici arrivano, appunto, nel 1996, quattro anni dopo. Sono nati da una collaborazione?

Mi furono commissionati da Barbara Frittoli, una grande cantante, e la mia scelta cadde su questi testi.


- Vi sono anche due poesie di Shelley. Tradotte da un grande poeta italiano, Giuseppe Conte.

Non saprei spiegarne la ragione, ma non me la sento di mettere in musica testi di lingua non italiana, una scelta forse dettata dalla semplice decisione di usare solo il mio idioma, una lingua di cui posso dominare ogni sfumatura e sonorità.

I poeti scelti non si possono definire “romantici” nel vero senso del termine, ma lo sono, in qualche modo, nei testi scelti poiché gli autori romantici sono anche il loro riferimento: idealmente si rivolgono a questa idealità che si estende anche a me. Io ho cercato di recuperare, anche nella parte musicale, un afflato, un modo di fraseggiare e narrare che si ricollega al mondo del canto da camera e alla sua tradizione occidentale, soprattutto nel repertorio di amati autori del Novecento. Uno sguardo affettuoso poi l’ho sempre mantenuto su Schumann, autore che ha espresso una serie di novità espressive importanti nella pratica liederistica.


- In un’intervista lo ha definito “avanguardista”. Perché?

Forse mi riferivo al fatto che Schumann lavorasse sulle piccole forme. È un compositore molto vicino ai poeti perché la sua è una musica apparentemente improvvisata, poco organizzata in modo strutturale e cosciente, quasi scritta in trance. Ciò rientra nel suo modo di concepire l’arte: deve derivare sempre da un’ispirazione intensa, breve nel momento, ma molto potente e necessaria. Questo procedere a brevi fiammate di sentimento mi affascina molto: lo trovo moderno perché anti-accademico, dà un’idea di grande libertà e di afflato poetico. Una musica “fiammeggiante”, che emana raggi la cui bellezza si estingue rapidamente e apre improvvisi scorci di stanze piene di ombre notturne.


- È il particolare nell’insieme.

Sì, mi affascinano quei compositori capaci di dare emozioni forti, anche di breve durata, alla continua ricerca di questo tipo di pulsione. Sono meno attratto dai sistematici, quei musicisti intenti a costruire. Però, ovviamente, il mio interesse per Bach è enorme. Un grande architetto capace di aprire egualmente quelle porte sulla nostra comune interiorità, ma con mezzi apparentemente più razionali che non emozionali e questa è la sua universale modernità: anche se pienamente inserito nella sua epoca riesce a proiettarsi fuori dal suo tempo.

In generale questa idea di artista costruttore e insieme poeta mi affascina molto perché diventa modello assoluto di Artista. Mi sento compartecipe di tutti quei compositori di ogni epoca che avverto come miei contemporanei, che superano le barriere del tempo e dello spazio. Vi sono musicisti che puoi studiare, puoi anche amare, ma che devi necessariamente collocare nelle caratteristiche del linguaggio della loro epoca e invece altri che, anche distanti dal nostro tempo, hanno questa capacità magica di comunicare come se fossero nostri contemporanei, fratelli, come se le loro opere fossero scritte oggi. Non senti la distanza tra te e loro e pensi “Avrei voluto scrivere io questo pezzo”. Oggi è l’istinto che mi spinge a creare. Non penso mai a quello che devo comporre, mi siedo e scrivo.


- Non lavora molto su quello che compone, quindi?

Non più, o per meglio dire, non penso a quello che devo scrivere, lo faccio e basta, la musica viene fuori da sola, lavorando.


- Ciò è dovuto certamente all’esperienza, all’evoluzione.

Sicuramente è legato a questo. Ho iniziato alla fine degli anni Settanta, avevo solo ventitré anni quando ho esordito alla Biennale di Venezia. Prima di Alice riflettevo molto prima di scrivere, facevo delle prove, andavo un po’ a tentativi; progressivamente il pensiero si organizzava e veniva fuori il pezzo, ma, comunque, nel comporre mi creavo problemi, mi chiedevo quale strada percorrere, se sarebbe piaciuto al pubblico, come avrebbe giudicato la critica. Rivelavo il mio stile, il mio modo di esprimere naturale, ma assediato dai continui interrogativi su dove doveva collocarsi il mio linguaggio rispetto ad un prima e un dopo, rispetto a chi doveva percepirlo. Non ero completamente sicuro, completamente libero. Dopo Alice mi accorsi che la fatica di elaborazione era sempre minore e maggiore la mancanza di sforzo e la spontaneità. Oggi la mia ispirazione è in tempo reale: le cose nascono nel momento in cui inizio a scrivere. È come se aprissi un rubinetto da cui scende l’acqua, devo solo raccoglierla nel suo giusto recipiente.


- Non vi è un continuo labor limae?

Il perfezionismo è aumentato con il tempo, ma lo spazio che intercorre tra la prima stesura e il perfezionarla, l’arrivare alla forma definitiva, è molto breve. Ciò vuol dire che la prima redazione è già quasi perfetta, so fin da subito cosa sto facendo e qual è il modo migliore per farlo; è come se il lavoro di perfezionamento lo avessi concluso prima ancora di iniziare a scrivere, so quali sono gli errori da non commettere e li evito. Questa è l’esperienza e la consapevolezza del tuo stile che arriva in tutti i compositori. La mia musica è nella mia mano, risiede nel mio orecchio interno e attende di rivelarsi attraverso il gesto della scrittura. Questo meccanismo naturale mi fa sentire assolutamente libero dai continui interrogativi e questo flusso spontaneo è un tutt’uno con me; quello che fai è assolutamente coerente con chi sei, con i tuoi desideri e le tue inclinazioni naturali, con i pensieri, con le luci e le ombre della tua anima.


In questo suo essere naturale c’è comunque qualcosa che la spinge a comporre?

Non so dirle da dove provenga la mia musica. La mia musica sono io. Io so poco in fondo di me, so quello che scopro di essere attraverso la musica che scrivo e questo mi può anche bastare. Quando ascolto le mie cose è come se guardassi la mia immagine riflessa in uno specchio, come se vedessi una mia fotografia: riconosco me stesso e anche quello che amo e che detesto, il mondo che sogno e quello che descrivo.


- Lei prima di scrivere sa già quale sarà il risultato, ma le capita spesso, poi, di ascoltare quello a cui non aveva pensato?

Ciò che ho descritto può avvenire soltanto con la consapevolezza tecnica, avere la padronanza tecnica di cosa si desidera esprimere e come fare per ottenerlo. È la possibilità di conoscere le cose e come renderle espressione artistica. La tecnica è fondamentale per raggiungere e definire il proprio stile. Gli amici, colleghi, il pubblico che mi conosce, quando mi ascoltano sanno che sono io e cosa sto facendo con i suoni. Vuol dire che sono riconoscibile. È il mio stile a parlare.


- C’è stata, comunque, un’evoluzione?

Il punto interessante è che c’è stato un cambiamento, ma se il pubblico, anche ascoltando un pezzo di trent’anni fa, mi riconosce vuol dire che il mio stile è come un marchio indelebile che sta all’interno del suono prodotto dalla scrittura. È ovvio che ci sia evoluzione e una ricerca stilistica, ma se un artista è autentico, sincero, lo riconosci fin dall’inizio. Usa nel tempo stilemi e colori diversi, ma si identifica nello stesso modo in cui si distingue un pittore: riconosci Picasso, Matisse e, anche se l’ultimo Picasso è diverso dal primo, sai che è lui. Riascoltando Alice a distanza di anni, mi rendo conto che ci sono cose che potrei scrivere esattamente uguali anche ora. Lo stile è identificabile quando è autentico, quando l’artista non mente. Dopo due battute distingui Schumann o Brahms: amici, fratelli, intimamente legati, accomunati da un vocabolario condiviso, la stessa armonia, ma sono sufficienti poche battute per riconoscerli nella loro diversità e unicità stilistica, dal fraseggio e dal modo di reinterpretare il “sentimento” del suono.


- Qual è la funzione del compositore oggi nella società? Ha una funzione o è semplicemente “arte”? Qual è la funzione dell’artista nel nostro tempo?

Penso che oggi, come sempre, l’artista debba avere un obiettivo: comunicare qualcosa.

Tutti gli artisti dovrebbero farlo, ma cosa sia il comunicare senza immagine e linguaggio verbale associato alla realtà è cosa assai misteriosa. È la specificità del coinvolgimento emotivo tipico della musica.

Però spesso nella contemporaneità delle arti questo non avviene: c’è una chiusura perché non c’è un riscontro.

Si crede che un pittore o un musicista contemporaneo non comunichino nulla o lo facciano per pochi eletti che “sanno” cosa cercare nella loro comunicazione, poi si entra, però, in un museo o sala da concerto per osservare e ascoltare il “passato”, il conosciuto e storicizzato perché si pensa che in questi casi il cosiddetto messaggio ci sia.


- Forse perché l’orecchio è ancora abituato ad un tipo di musica tonale.

Anche io lavoro su quel tipo di materiale e sono convinto che ci sia corrispondenza tra la nostra fisiologia dell’ascolto e l’aspetto psicologico e intuitivo sedimentati da una stratificazione di opere e “progressi” evolutivi che nell’ambito del vocabolario “tonale” hanno costruito l’immenso patrimonio di condivisione e consapevolezza estetica dal medioevo e rinascimento fino ai nostri giorni. Tonale e tonalità sono cose diverse: io compongo partendo dall’armonia cosiddetta tonale, ma non uso la tonalità. La musica costruita sulla tonalità vera e propria è finita a fine Settecento, già Beethoven va oltre.


- Il discorso potrebbe risultare ancora più banale: Beethoven, nella sua epoca, riuscì ad ottenere fama e consenso, nonostante i suoi guai e patologie psicofisiche mentre oggi esiste una difficoltà sostanziale ed evidente dell’artista di riprendere un ruolo attivo nella società dei consumi.

Oggi vengono offerti dei surrogati che appaiono sufficienti e soddisfacenti. Per fare un  esempio, il surrogato della musica classica è il pop, in tutte le sue varianti, o il jazz, e si produce della buona e della pessima musica in entrambi i casi. È, però, musica nata per scopi industriali, per alimentare la catena dello spettacolo e della comunicazione di massa, quasi sempre somma di interessi di terze parti che hanno scoperto, dal Secondo Dopoguerra, la potenza del mezzo al di là del messaggio che questo veicola, che anche l’arte diviene merce vendibile se ridotta nella forma, nella durata e nelle pretese di linguaggio. Prima della Seconda Guerra Mondiale, più o meno, prima dell’avvento della radio e dei mezzi di diffusione di massa di immagini e suoni, il pubblico attendeva e accoglieva come evento normale nuove opere; dopo la guerra si creano le condizioni sociali e industriali per una rinascita che tiene conto di nuovi bisogni e ne crea.

Il cinema non è altro che una fusione di teatro, musica e letteratura, il tutto racchiuso in una forma più breve, consumabile in un tempo adatto al nuovo stile di vita moderno, più veloce: in questo tempo brevissimo è come se leggessimo un libro di 400 pagine sintetizzato e semplificato, senza alcuna fatica. I surrogati delle arti madri, poesia, musica, pittura, nascono sulla richiesta di essere prodotti consumabili da chiunque senza sforzo apparente. È l’inizio di quello che oggi chiamiamo globalizzazione.

Le arti visive contemporanee sono diventate oggetto di investimento e business, acquistate da collezionisti o semplici investitori che vogliono diversificare il loro rischio economico e cautelarsi in caso di crisi economiche. Cantanti pop e interpreti nell’ambito classico sono più importanti in quanto personaggi, immagini pubbliche del contenuto di cui sono portatori, vale per la musica di consumo come per ciò che resta della musica classica cosiddetta. Non si coglie più la ragione per cui si debba andare a teatro ad ascoltare una sinfonia che dura un’ora quando ci si può concentrare su una canzone che dura appena tre minuti restando a casa sul proprio divano, magari guardando la televisione. La comune soglia di attenzione è in rapporto diretto con lo stile di vita frenetico, da sms costante, che ci comprime lo spazio vitale e la relativa comunicazione che deve essere per forza semplificata, economicizzata per essere accettata.


- Questo è paradossale: un tempo erano maggiormente ridotte le possibilità di coltivare ed ampliare la cultura, lo studio era permesso solo ad una piccola élite, eppure musicisti come Mozart erano apprezzati dal popolo.

Ho spiegato cosa è avvenuto e temo che non si possa tornare indietro. Lì c’era un tempo adeguato alle cose, un tempo diverso, legato allo stile di una società tanto differente, una lentezza che oggi sarebbe giudicata inquietante, una mostruosità. So che ognuno deve fare quello che sa fare e gli artisti devono continuare a fare gli artisti, farlo al massimo grado e con la massima ricerca di qualità espressiva. Non possono fare altro, come i loro predecessori nelle rispettive epoche…perché guai ne avevano anche loro e spesso molto più grandi dei nostri!


- Lei si sente avvilito da questa situazione?

Non desidero essere più famoso di un qualunque artista popolare. Non è questo il punto, come avrà capito, e non lo è mai stato per nessun vero artista in ogni epoca. Non ha alcun rapporto la cosiddetta fama o l’accettazione plebiscitaria con la qualità della tua arte. Io penso che un’artista, per continuare ad essere tale, debba essere onesto e fare al meglio quello che sa fare come un dovere etico, morale nei confronti della società. Egli deve contribuire al miglioramento della comunità in cui vive perché ha la possibilità di fornire indicazioni sull’idea umana di Bellezza, e la Bellezza ci può rendere anche più liberi perché contrapposta al male e alla violenza. Vuole farsi veicolo di valori assoluti, incarnare utopie, testimoniare condivisione, uguaglianza anche sociale; è, insomma, uno strumento per la felicità umana attraverso un’idea di rivoluzione dello spirito oltre barriere di qualunque tipo. Tutto ciò che conosciamo come Male è il contrario di ciò che l’arte esprime. L’arte deve servire a sottolineare la diversità e specificità umana in un contesto di comunanza, curiosità e spiritualità comprensibili. Gli artisti possono, anzi, devono fare questo.


- Lei crede che la responsabilità di questa distanza dalla società e dai suoi nuovi bisogni possa essere attribuita, quindi, anche agli artisti contemporanei e al loro tacere e sottrarsi su questi aspetti?

Per la musica hanno avuto un peso negativo le neoavanguardie nate dopo la seconda Scuola di Vienna, ma bisogna riconoscere che costituiscono solo una minima parte nella storia della musica contemporanea; il problema è che dopo ci si è focalizzati solo su questo orientamento e lo si è estremizzato riducendone e distorcendone i contenuti. Ciò è accaduto anche in letteratura, e l’identica cosa nella pittura, in entrambi i casi a livello globale.

Agli inizi degli anni Settanta, come risposta a questa degenerazione, è cresciuto, prima negli Usa e dopo in Italia, un movimento di compositori che hanno voluto ripartire dal punto di rottura e ricucire i collegamenti spezzati dalle neo-avanguardie, un movimento che i critici americani, e poi italiani, hanno definito Neoromantico, nello stesso momento della Transavanguardia per le arti visive. Lo scontro con l’inadeguatezza e difficoltà a riprendersi un ruolo attivo nel nuovo modello sociale era inevitabile e non ha peraltro evitato le pesanti conseguenze del declino della musica d’Arte. Nel frattempo le neoavanguardie si erano già trasformate e infiltrate nelle maglie del potere politico cercando alleanze strategiche di pura sopravvivenza istituzionale. Per gli oppositori lo spazio era ridotto e la ricerca di consenso difficile.


- La società era stata già plasmata. Il momento giusto era il ’68: agiste, in effetti, con ritardo.

Non credo proprio che quegli anni fossero adatti al discorso del neoromanticismo, anzi proprio in quel periodo le avanguardie e il pensiero strutturalista prendeva possesso delle università, degli editori, dei teatri.

La musica d’avanguardia è divenuta pura autoreferenzialità, soliloquio tra élites salottiere, praticamente senza pubblico vero, ma il vero problema è che anche la nostra lo è, ed è così per tutta la musica classica. Io non ho soluzioni, posso solo continuare ad adoperarmi in quello che so fare sperando che accadano cose nuove. Deve rimanere sempre attiva la speranza di un cambiamento e penso sia più interessante e produttivo produrre forme, avere e dare la possibilità di ascoltare piuttosto che lamentarsi del fatto che le cose non vadano come dovrebbero andare. Bisogna agire, e il mio unico mio modo di agire è continuare a scrivere quella musica alternativa al consumo e alla pura ricerca sperimentale, entrambe sono necessarie e, forse anche auspicabili, se lavorano nella qualità. La terza via è, però, ancora lì, incarnata dai grandi autori del Novecento che continuano a parlarci e ad essere amati da una grande fetta di pubblico attivo.

Ho fiducia nella condivisione: scrivo per essere ascoltato, per gli altri, per condividere la mia arte. Se non credessi in questo farei parte di questo gioco intellettuale esterno alla realtà e vorrei imporre alla società qualcosa che le è divenuto estraneo. Questo sarebbe disonesto. Come un buon cuoco, usando la metafora del cibo, ho il dovere di offrire qualcosa che è buono e che dia benefici; solo uno chef disonesto pretenderebbe di essere considerato un bravo cuoco anche se non lo è, facendo in modo che la gente consideri il suo cibo un bisogno: sa che non è gustoso, ma pretende, comunque, che venga apprezzato. Quando un’opera d’arte mi suggerisce qualcosa di autentico è come se diventassi io l’artista ed è questo fondersi con l’opera, di cui sto godendo il beneficio, che mi fa essere come lui. Questa condivisione supera ogni barriera razziale, sociale e geopolitica.

Si deve, quindi, continuare ad agire in onestà perché l’arte esprima sentimenti e passioni universali, eterne. La musica, infatti, non si costruisce con concetti, ma suoni, e il suono è asemantico, non ha significato, eppure quando si ascolta, se è arte autentica, si percepiscono valori assoluti, si coglie una verità. A questo punto, nonostante un compositore sia di 300 anni fa, lo sentiamo nostro, come se quel pezzo lo avesse scritto un nostro contemporaneo. Un grande poeta come Dante lo avvertiamo estremamente vicino e la stessa sensazione si ha con un’opera di Shakespeare: il loro comunicare sentimenti e idee che risuonano dentro di noi li rende autentici, immortali.


- Come ha specificato, è proprio la società che non ci dà il tempo – inteso propriamente come tempo materiale – dal momento che l’arte richiede riflessione e attenta considerazione.

Bisogna riflettere, certo, però è anche vero che il beneficio dell’opera d’arte può non essere sempre immediato. Si va ad una mostra, si legge un libro, si ascolta una musica mai sentita, si accumula questo materiale nel nostro inconscio e prima o poi una forma di restituzione a nostro vantaggio e beneficio arriverà, ci trasformerà per sempre e ci renderà diversi da come eravamo. Più l’opera d’arte è forte, vera, potente, autentica e necessaria più riconosci in essa una verità che ti cambia profondamente. Se ascolti grande musica non solo comprendi di aver fatto bene a sentirla, ma sostieni risolutamente la necessità della sua esistenza, anzi, capisci che non potresti più viverne senza e che la sua presenza nel mondo sia la vera normalità. Se perdessimo improvvisamente la cappella Sistina dissiperemmo una verità di cui sentiremmo per sempre la mancanza, non avremmo la certezza che l’animo umano può raggiungere vertici assoluti, rivoluzionari. Ci sentiremmo come privati di un arto o di un organo, non più capaci di mantenere intatta la nostra integrità e il nostro equilibrio psicofisico. Le opere d’arte sono necessarie all’umanità, ma questo si dimentica o semplicemente non si sa; conoscere l’esistenza dei quartetti di Beethoven potrebbe trasformare la nostra vita in meglio e per sempre. Il problema è che oggi ci si accontenta e quello che facilmente ci viene offerto risulta più che sufficiente. Dobbiamo ricordarci di essere avidi, ma non di danaro, di curiosità.


- L’arte è, però, considerata nemica di qualsiasi potere. Avendo un significato, a volte non immediatamente percepibile, ma profondo e vero, suscita il timore di un’apertura mentale che è possibile, di certo, con i grandi artisti e molto meno con i semplici “artigiani”.

Certo. Molti governi fanno leva sull’insipienza delle persone, sull’opportunità di mantenerle estranee dalle cose della Cultura e delle Arti ed è chiaro che si tende a limitare la coscienza prima ancora della conoscenza: meno accesso al sapere significa migliore possibilità di manipolazione politica. Questo è un progetto, un disvalore che ci accompagna nel corso della Storia, dall’inizio dei tempi direi, il sopruso del più forte o del più astuto contro il bene comune. Gli artisti di ogni epoca sono stati al contempo vittime e strumenti di questo potere, nella consapevolezza, ma anche nella completa sudditanza e accettazione.


- Soprattutto per la nostra.

Sì, perché è una società basata sul larghissimo consumo e sulla manipolazione sottile dei significati. I nuovi eroi di massa sono il risultato di una ricerca di mercato amplissima e tendenziosa che riproduce le strategie politiche, a volte superandone le tecniche di persuasione: ti creo il supercantante di cui non avevi affatto bisogno e ti convinco invece che era tutto quello che in fondo desideravi per essere felice. Che bisogno hai, a quel punto, di cercare un’alternativa?


- È quello che intendevo parlando di tempo.

Ciò gioca a sfavore. Il problema non si pone nelle arti visive dal momento che possono essere o possedute solo da chi ha l’opportunità di acquistarle o semplicemente ammirate in un museo senza possibilità di “comprarle”. Sono solo o pettegolezzo o vivono nella realtà se trasformate in oggetti industriali: ecco nascere il design!


- Anche i musei sono poco frequentati…

In realtà le persone affollano i musei spesso attratte da altro. Ci si reca, ad esempio, ad una mostra di Van Gogh perché noto come strano personaggio, un po’ matto, nel suo gesto estremo di recidersi un orecchio. Comunque, qualunque sia il motivo, l’importante è che chi è andato a vedere le sue opere senza sapere veramente perché o attratto dal pettegolezzo, poi ne esce trasformato. In qualche modo questo contatto senza mediazione potrà compiere il miracolo della trasmutazione delle nostre idee e delle nostre convinzioni anche sociali.

Io ho fiducia nelle piccole cose. Ecco, tu ora mi stai intervistando ed io sono soddisfatto perché dai spazio e voce alle mie idee. Chi leggerà questa intervista scoprirà che esiste anche oggi la musica come Arte e come pensiero attraverso la scrittura mentre magari non si è mai posto il problema se esistano i compositori, o addirittura non ne conosce il significato. Si è informati su chi interpreta la musica, ma molto probabilmente non ci si chiede più se la musica si scrive. Io non vivo ignorando, so come si crea tutta la musica, quali sono i meccanismi per crearne, ad ogni livello e in ogni linguaggio. Non giudico e penso dall’alto che tutti siano ignoranti e incapaci. Niente affatto. Ci sono livelli e valori diversi per fare ciò che utilizza la creatività umana e anche le cose semplici lo sono solo in apparenza: cantare bene una bella canzone è difficile come cantare bene un’intera opera, i mezzi e le tecniche sono diversi.


- Apprezza questo genere?

Io posso anche apprezzare, l’importante è che ci sia verità e sincerità. Anche nella musica pop è possibile riconoscere grandi artisti, limitatamente alla forma che usano, e la diversità sta proprio in questo. Una canzone non è una sinfonia, ma si deve ascoltare con la chiara consapevolezza che si tratta di musiche diverse, che pretendono atteggiamenti e consapevolezza differenti. Chi vuole dedicarsi alla musica ad un primo livello – e si vede questa grande necessità nei talent show televisivi – deve prendere coscienza delle proprie capacità e propensioni, capire la necessità dello studio e del sacrificio, parole oggi poco amate, e non pretendere di essere davvero artisti solo perché si lavora su un’immagine e non su una tecnica.


- Il problema è che questo accade.

Si può anche scoprire qualche artista, ma il rischio reale è che passi un messaggio di semplicità, facilità, mentre nulla è semplice. Anche cantare bene una canzone in modo intonato non è elementare, sono necessari studio, pazienza, e, soprattutto, talento, quella qualità fondamentale, innata, che o si ha dal principio o non si potrà mai ottenere. Pronuncio una frase che potrebbe risultare impopolare e, dunque, richiede un’attenta e corretta interpretazione: arte e democrazia non vanno d’accordo, la democrazia applicata all’arte non conduce mai a buoni risultati.

Se non si ha il talento è preferibile svolgere un qualunque altro mestiere per cui si è portati, ma non pretendere di fare l’artista; si può dedicare tutta la vita allo studio, ma se manca il quid, quella cosa ineffabile, inspiegabile, non acquistabile, non si potrà mai andare oltre un certo limite. È l’illusione molto contemporanea che tutti possano essere artisti, che sia sufficiente acconciarsi in un certo modo per diventarlo, ma si tratta solo di un’ingannevole menzogna. Un esempio quotidiano è quello delle innumerevoli adolescenti che desiderano a tutti i costi fare le fotomodelle e non comprendono che non basta vestirsi in un certo modo per esserlo, come non è sufficiente qualche lezione o l’acquisto di una determinata racchetta per diventare un grande campione di tennis.


- Creano con leggerezza l’illusione di poter fare la ballerina quando molte bambine non sono dotate di un fisico appropriato.

Mia moglie insegna danza e ha a che fare con diverse situazioni del genere.


- Lei lavora con e per la danza: questo le ha permesso di rivolgersi ad un diverso uditorio?

Sì, mia madre era una ballerina scaligera, quindi la danza è a me molto vicina.


- È un’arte ancora molto aperta al pubblico.

Quella contemporanea, ancora più di quella classica, ha un grande pubblico di giovani perché è un’arte aperta al nuovo e, forse, il coinvolgimento fisico, la fisicità oggi colpisce molto l’immaginario dei ragazzi sotto diversi punti di vista. È una buona mediazione come il teatro, ma non usa la parola, come l’opera, non si canta, si agisce con il corpo.

Quando scrivo per la danza mi sento più libero perché posso esprimermi con uno stile ancora diverso rispetto a quando scrivo musica da camera o sinfonica; ho l’opportunità di servirmi di materiali anche molto differenti che non userei in altre circostanze, come l’elettronica. La tecnologia, in cui io ho creduto, mi ha aiutato notevolmente e lavorare per la danza mi piace, mi appassiona molto. Sono due anime che convivono in me. Ho sempre grande soddisfazione quando lavoro per la danza perché c’è entusiasmo, il pubblico è meno malizioso e ideologico di quello che frequenta i concerti; è una platea curiosa, attratta e impaziente di cose nuove.

Si deve eliminare, anche in questo campo, l’equivoco del talent show, l’inganno che in tre mesi si possa diventare ballerini poiché la danza è, al contrario, una disciplina tecnica in cui non esiste democrazia. È un’arte selettiva e la selezione fisica è forte, soprattutto nella classica. Nel contemporaneo si dà più spazio – anche se richiede ugualmente studio e tecnica – a una fisicità più reale e meno artefatta e, già in questo, mostra una maggiore apertura. C’è ancora un grande fermento, una grande evoluzione, anche se i morsi della crisi sociale limitano spazi e opportunità anche in questo ambito.


- Sua moglie, Emanuela Tagliavia, insegna danza contemporanea?

È una coreografa affermata, un’ex ballerina classica che insegna contemporaneo in grandi scuole ed è evidente che nel suo stile c’è la consapevolezza della multidisciplinarietà stilistica. Si parte dal teatro danza per costruire, attraverso la memoria classica, uno stile contemporaneo solidamente ancorato alla tecnica basilare nella sua grande evoluzione novecentesca. È una strada ancora aperta che sono felice di percorrere in questo lavoro comune di collaborazione tra coreografa e compositore, praticato con grandi risultati per buona parte del Novecento.


- Lei collabora praticamente anche durante le prove.

Progettiamo insieme dalla prima all’ultima battuta. Stravinskij e Balanchine sono stati gli ultimi a creare dei capolavori sia di coreografia che di musica in cui i due aspetti procedevano all’unisono. Questa collaborazione tra artisti ha sempre creato dei risultati e il suo venir meno risulta oggi negativo sia per la danza che per i compositori. Io, invece, continuo a crederci molto.


- Anche perché risulta indispensabile la collaborazione.

Totalmente, ma bisogna conoscere la danza, sapere quali sono le esigenze, amarla, e molti colleghi compositori la ignorano, purtroppo, e non ne conosco il motivo se non la pigrizia mentale e la gelosia.


- Era una passione che nutriva fin dal principio o è maturata negli anni?

Fin da bambino, e non solo per trasmissione diretta di mia madre. È una conoscenza, una passione a cui si può arrivare se solo se ne coglie la grande potenzialità.


8 Domande per una tesi (Accademia Teatro alla Scala), a cura di Vittoria Rigamonti, maggio 2020


1.     Come pensa sia percepita la contemporanea (principalmente l'opera) in Italia oggi, sia da parte del pubblico sia da parte di critici, estimatori, giornalisti?


L'opera contemporanea e in generale la musica cosiddetta contemporanea nel nostro Paese, dopo quasi settant'anni (a partire simbolicamente dal 1950) ha lasciato molte macerie e mi spiego: due o tre generazioni di autori, moltissime partiture nei vari generi (camera, sinfonica, teatro), grande sostegno dei principali editori musicali e sostegno della critica militante per non parlare del sostegno politico e istituzionale…eppure quasi nessuna di queste opere musicali è entrata in repertorio, pochissimi interpreti di fama internazionale hanno deciso di includere nei loro programmi stabilmente queste opere, i cantanti lirici hanno continuato a occuparsi del repertorio tradizionale, la critica militante è praticamente dissolta e così pure gli editori sono ridotti al lumicino e arrancano seguendo pochissimi autori che per motivi forse estranei alle cose dell'Arte riescono a raggranellare spazi di esecuzione….ma cosa è successo? Tanto rumore per nulla? Con la parola “contemporanea” in realtà poco per volta si è incarnata una sorta di ideologia, un codice dogmatico legato a un vocabolario musicale che ha praticato la consapevole programmatica rinuncia alla comunicazione, a qualsiasi riferimento al passato musicale come memoria storico-linguistica, come costume, come pratica esecutiva, come rispetto di un sistema di segni e gesti che si erano stratificati in secoli di musica e arte in generale. Il segno musicale scritto, per la prima volta in assoluto, si sostituiva al suono, la partitura era il feticcio cui sacrificare la realtà sensuale dell'ascolto, la ricerca come continuum, come un mantra che prendeva il posto dell'opera musicale in quanto forma, pura astrazione filosofico-concettuale del suono contro la necessità del suono come espressione, come “sentimento”. In buona sostanza la scrittura musicale come stile individuale era sostituita da un linguaggio internazionale privo di tracce di genius loci, privo di narrazione, puro elenco di possibilità di effetti e non affetti…l'idea di una Bellezza oggettiva, umana cioè condivisa e condivisibile nel tempo e nello spazio, che non ha bisogno di spiegazioni e sovrapposizioni di pensiero altro che il suono stesso veniva poco per volta eliminata. La spiegazione di questa follia, di questa frenesia distruttiva era nell'aria dalla fine della seconda guerra mondiale e si è nutrita di un pensiero nichilista in cui l'Arte non poteva e doveva più “consolare”, “abbellire” il mondo e rendere migliori gli esseri umani, portare gioia e sentimento del Bello come medicina doloris, come educazione alla rivoluzione spirituale in antitesi agli orrori del dolore e della morte perpetrata dalla follia umana; gli uomini dovevano solo riflettere sulla loro indole al Male, punirsi e creare nuove non-forme di linguaggio deprivate dalla soggettività vista ormai come inganno pericoloso; la scienza e la tecnologia erano un mezzo utile per elaborare questo nuovo pensiero (ecco la musica elettronica e la pseudo scienza ad essa correlata). Riempire i teatri di persone da acculturare, da guidare verso questa meta-artisticità, lasciare qualunque idea di Bellezza e di passione fuori dalla porta dalle sale da concerto…e dai musei e poi dalle scuole musicali, dalle università. Il teatro musicale privato della naturale espressività del Canto, la quasi totale assenza di una drammaturgia basata sul personaggio, sull'individuo simbolo o archetipo di sentimenti e passioni umane reali, ha generato forme sperimentali di gesti teatrali sempre in tensione, sempre contro e mai in legame con ciò che sappiamo di noi stessi e degli altri, in astratta contemplazione di mondi sconosciuti, irreali e autoreferenziali, tentando di seppellire le idee sotto un fumo spettacolare dove la scena domina a prescindere da ciò che si ascolta, da ciò che si canta e suona, immagini, flash, alla ricerca di una ricerca…un loop senza mai altro esito che non sia quello dell'”interessante”. Poco per volta, con la nascita della musica di consumo, l'avvento della radio e dei nuovi media, questa frattura tra l'élite artistica e il grande pubblico trovava sfogo e nuova linfa per restare in piedi a discapito della musica classica contemporanea, i musicisti sempre più diffidenti in uno stesso fronte comune con il pubblico deluso da tanta musica brutta e inconcludente, punitiva in assoluto, e passo dopo passo l'alienarsi di quel cordone sanitario che aveva retto le sorti di questo mostro ci ha portato dove siamo adesso, un limbo dove resistono i più coriacei autori, molte macerie, mancanza di interesse e sostegno da parte del potere politico ed economico e prospettive minimali sul futuro e sulla rinascita della musica d'Arte contemporanea. Negli altri Paesi più o meno la storia è la stessa, nel nord Europa forse tutto è stato vissuto in modo più soft, il carattere e la genetica ha contribuito a vivere in modo meno cruento questa dissoluzione; negli USA forse l'unica eccezione, le avanguardie musicali non hanno mai attecchito davvero per motivi ovvi e naturali, il jazz ha in parte contribuito alla loro salvezza e molti grandi autori del secondo novecento hanno continuato e continuano a lavorare, seguiti da un pubblico numeroso, la loro musica si è contaminata in modo intelligente con quella di consumo, con il cinema, con il musical, esiste una contemporaneità multiforme e non ideologica basata sulla concretezza e una moderna spregiudicata idea di Bellezza cui anche il teatro musicale ha potuto attingere e rinnovarsi. Nel mio percorso artistico a partire dalla fine degli anni settanta, insieme a pochi altri compagni di viaggio, ho cercato altro da ciò che i miei maestri proclamavano come verità, sono andato nella direzione opposta a loro e ho riallacciato il discorso sulle sorti del linguaggio musicale moderno a quei grandi veri Maestri del novecento che erano stati “uccisi” dalla prepotenza dell'avanguardia di cui sopra. Una battaglia durissima ma ho continuato e continuo a scrivere musica per il pubblico, tutto il pubblico possibile, con la speranza che le nuove generazioni, che non hanno vissuto questa tragedia silenziosa, ricevano il testimone e riannodino il discorso interrotto.



2.     Riguardo il teatro musicale, ci sono opere nuove (create negli ultimi cinquant'anni circa) universalmente considerate “valide” e che hanno avuto molte riprese nei teatri di tutto il mondo. Ad oggi esiste dunque, nella sua opinione, un vero e proprio repertorio contemporaneo a cui attingere? Se sì, qual è la percentuale di opere di compositori italiani all'interno di questo repertorio?


Le opere create negli ultimi cinquant'anni che continuano ad esistere sul palcoscenico sono molto poche in realtà e sono per lo più state scritte dai grandi autori pre o contro avanguardie di cui ho accennato prima, Stravinsky, Britten, Strauss, Korngold, Barber, Bernstein, Berg (con il Wozzeck), Sostakovich, Ravel, Debussy, Prokoviev, Janacek e altri… tra gli italiani l'unico vero grande autore di teatro musicale è Giancarlo Menotti, completamente cancellato in Italia dalla critica militante che sosteneva i Nono, Berio e compagnia… io ho scritto quattro opere e alcuni miei colleghi del movimento neoromantico molte di più…le avanguardie però hanno perso la battaglia e forse anche la guerra, le loro opere non resistono se non per accanimento terapeutico o altro, forse anche peggio,  mentre quelli che le ho citato vivranno per sempre e mi auguro che un giorno la Scala si ricordi di Menotti…e (mi conceda) produca anche le mie opere!


3.     Secondo Lei le fondazioni liriche commissionano abbastanza opere nuove? Pensa sia importante commissionare nuove opere?


Certo che sarebbe fondamentale che le fondazioni commissionassero opere nuove, di fatto alcune lo fanno con una certa continuità nonostante tutto ma a beneficiarne sono quasi sempre un ridotto manipolo di autori, molti dei quali proseguono nella scia di quei linguaggi che ho combattuto da sempre. C'è ancora una sorta di connivenza tra le istituzioni e i loro direttori e il residuo ideologico legato al pensiero di cosa è Arte e cosa non può più essere oggi; i direttori artistici, gran parte dei quali non sa nulla di musica, preferisce non avere problemi culturali e si adegua a questa idea moderata di concedere un predominio presunto e acclarato negli anni precedenti da sostegno e imposizione dogmatica politicamente corretta e favorisce prodotti che incarnano questa ovvietà anche se scollegata dalla maggioranza del pubblico che di fatto subisce queste scelte e crede che non ci siano alternative…invece ci sono eccome e nonostante tutto questo muro di certezze basato sull'ignoranza e su altre forme di persuasione e opportunità. I soldi sono ancora pubblici, non importa se il teatro è semivuoto, la Cultura è nelle mani giuste e le scelte sono indiscutibili!  


4.     Proporre e produrre nuove opere liriche in Italia oggi non è facile, nella sua opinione è una questione di pochi fondi o vi sono altri motivi?


Le ho spiegato il meccanismo delle scelte di comodo, slegato dai gusti e dalla volontà e desideri del pubblico, peraltro molto “vecchio” e abituato al repertorio museale. A fatica si vedono i capolavori del novecento di cui sopra, figuriamoci le opere nuove…se le programmano devono essere quelle col bollino controllato della vera contemporaneità, così le direzioni artistiche pagano il loro ticket alla Cultura ufficiale. I soldi forse sono pochi in generale ma molti sono sprecati e molti cachet sono ancora eccessivi, per non parlare degli stipendi dei vertici dei teatri, scandalosi è dir poco. Quante cose belle e nuove si potrebbero fare con una gestione oculata delle risorse e poco per volta anche il pubblico tornerebbe a teatro, magari stanco dei soliti titoli del museo.


5.     Nella sua esperienza quali sono i teatri e i festival Italiani più aperti alla contemporanea?


Ce ne sono e ce ne sono stati e non sono più, le cose cambiano in fretta e questo dipende da chi governa e perché…nella mia esperienza italiana posso citare il Teatro Massimo di Palermo, che a dispetto di una problematicità della città e della sua storia, era fino ai primi anni novanta uno degli enti lirici più agguerriti a sostegno del novecento e della contemporaneità…la mia ALICE, opera in tre atti con un cast molto grande un'orchestra enorme, trovò esito con ben otto repliche nel lontano 1993, grazie alla cura intelligente del suo direttore artistico di allora, il compianto Girolamo Arrigo; molto pubblico e grande successo, stranamente la mia casa editrice di allora poi non fece niente per dare seguito  a questo successo…le spiego perché o ha capito tutto?


6.     Pensa che l'Italia perda un'opportunità nel non collaborare con i teatri esteri per l'opera contemporanea?


Da sempre sento parlare di coproduzioni e della loro necessità ma poi a conti fatti è difficile che un teatro italiano collabori con altri teatri, in primis con altri del nostro Paese, gelosie, liti tra direzioni, opposti veti e contrapposizioni politiche (già, le nomine sono sempre frutto di accordi politici), tutto spesso poi camuffato sotto disquisizioni tecniche, palcoscenici piccoli o troppo grandi, per non parlare poi di presunte illazioni su cosa il pubblico del tal teatro amerebbe vedere e che quella tale opera non soddisfa questa necessità…insomma in genere una marea di menzogne e di scuse per non fare le cose. Quando si fanno, i motivi spesso rientrano nel gioco di opportunità cosiddette che vanno oltre la cosa in sé e il nome stesso dell'autore magari. Spero che si cambi marcia ma devono cambiare i vertici direttivi.


7.     Il modello USA è di produrre molto e di vedere in ultima istanza ciò che sopravvive. Sono molto aperti alla sperimentazione e parlano alla propria comunità. In EU commissionare e mettere continuamente in scena nuove opere è prassi comune, accolta dal pubblico. L'Italia si può avvicinare a questi modelli prendendone esempio?


Le ho spiegato il mio pensiero su questo e aggiungo, a testimonianza dei quanto ho affermato, che il mio dittico FANTASIO- FORTUNIO, tratto da A. de Musset, andrà in scena prossimamente all'Opera di Budapest, nel nuovissimo spazio costruito su una vecchia stazione di treni costruita da Eiffel, un teatro molto vivace e pieno di iniziative anche fuori dal grande repertorio. Sto cercando di capire se l'Italia vuole entrare nella coproduzione ma credo sarà molto difficile, sperare non costa nulla.


8.     La musica barocca era sostanzialmente intrattenimento, la musica romantica era specchio dell'anima individualista borghese, ogni epoca ha trovato una corrispondenza identitaria nella musica: quale può essere il riferimento alla nostra società per la musica contemporanea in generale?

L'unico riferimento possibile per noi oggi è tornare a produrre Arte che comunichi con un pubblico più vasto possibile, un'Arte che non è malauguratamente non più necessaria, che non fa parte della normalità della vita, che è oggetto strano e superfluo, e si avvicini ai più giovani, che non ne vogliono saper della musica classica e contemporanea; hanno già, o credono di avere, tutto quello che gli serve e che vogliono ascoltare. Creare una nuova istanza spirituale e trovare un modo corretto di venderla al pubblico nuovo, che gli parli di cose nuove ma eterne…i giovani quando hanno l'occasione di andare a teatro e ascoltare la parola di Shakespeare ne vengono catturati, lo stesso con la Danza, soprattutto quella contemporanea, sono pochi gli autori contemporanei che riescono ad arrivare a quel pubblico neofita, magari attraverso il cinema o la danza appunto, ma raramente nelle sale da concerto, troppo costose o viste come musei vecchi e decrepiti. Le nuove tecnologie hanno modificato il consumo della musica, la si ascolta dal cloud, è un ascolto individuale e immateriale, troppo soggetto ai cambi repentini di mode e trend mediatici, dominati dal potere dei social, tutto è virtuale, ultra soggettivo nella pratica ma teleguidato da flussi di commerciali in continua evoluzione per auto-sopravvivenza industriale. L'immagine domina la nostra cultura, nella musica resistono nuovi soggetti che sono alias di qualcos'altro, sottocultura, pensi ai finti tenori o alla finta musica classica, quanti impostori, quanta spazzatura. Tornare nelle sale da concerto, tornare a teatro, una sfida a prescindere dal destino della cultura contemporanea, dalla musica contemporanea.












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